Questo articolo ed il precedente si inseriscono nel discorso iniziato sul post Menti senza contenuto del blog Neuro@antropologia.
Da Perche’ non siamo il nostro cervello di Alva Noë, capitolo 7
I neurofisiologi sono nella loro maggioranza ancora sotto l’influenza del dualismo, per quanto neghino di filosofeggiare. Essi assumono ancora che il cervello sia sede della mente. Dire, nel gergo oggi in voga, che è un computer con un programma, o ereditario o acquisito, che pianifica un’azione volontaria e quindi ordina ai muscoli di muoversi, è un vantaggio minimo rispetto alla teoria di Cartesio, perché dire questo significa restare confinati nella dottrina delle risposte agli stimoli.
JAMES J. GIBSON
In questo capitolo racconto la storia di Hubel e Wiesel, insigniti del premio Nobel per le loro scoperte relative all’apparato visivo dei mammiferi. Il loro lavoro su basa su quella che mostrerò essere una concezione insostenibile della visione e degli altri poteri mentali intesi come processi computazionali che hanno luogo nel cervello. Il problema principale di una teoria computazionale è che essa presuppone erroneamente che la mente emerga da eventi che accadono nella testa. L’eredità di Hubel e di Wiesel va perciò messa in discussione.
IL CERVELLO VISIVO IN AZIONE
Nel 1981 David Hubel e Torsten Wiesel vinsero il premio Nobel grazie alla ricerca sulla neurofisiologia della visione condotta presso la John Hopkins University prima, e poi a Harvard, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta. La ricerca di Hubel e Wiesel, e il fatto che le sia stato assegnato il più alto riconoscimento previsto dalla comunità scientifica, rappresentano un punto di riferimento per la scienza della coscienza. La visione, dopotutto, è in prima istanza una forma di coscienza animale. Infatti, almeno per gli esseri umani, la visione ha un ruolo fondamentale nella vita cosciente. Il mondo è aperto alla nostra esplorazione visiva e ci affidiamo alla visione per trovare nell’ambiente ciò che cerchiamo e di cui abbiano bisogno. Ancora di più, per noi animali umani il mondo è un mondo visivo. E’ un mondo pieno di forme, colori e prospettive. Il carattere visivo degli oggetti plasma il modo in cui li concepiamo: pensiamo a loro, per esempio, come dotati di un davanti, di un dietro e di aspetti nascosti. Immaginate quanto sarebbe difficile categorizzare e comprendere ciò che avviene intorno a noi se non potessimo vedere.
Talvolta si sente dire che quello che sappiamo su come il cervello ci permette di vedere è superiore a quello che sappiamo su qualsiasi altra funzione mentale. Chi lo dice ha di solito in mente il lavoro di Hubel e Wiesel. Per molto tempo è stato impossibile studiare le funzioni cerebrali di un soggetto umano o di un animale in vita. Come sarebbe potuto essere altrimenti? Il cervello non è in vista; è nascosto in una scatola di ossa. E anche se non fosse cosi’ – se le ossa fossero trasparenti – l’organizzazione funzionale del cervello è oscura e la sua complessità impedisce di descriverla con chiarezza.
L’importanza di Hubel e di Wiesel sta nel fatto che essi sembrarono trovare una maniera di esibire il funzionamento del cervello in modo tale da rendere intelligibile quello che esso è in grado di fare: come può assolvere la funzione di renderci visivamente coscienti. Sorprendentemente, il loro lavoro è stato e rimane ancora oggi un punto di riferimenti per la ricerca neuroscientifica. Come spiegherò ora, il difetto riscontrabile nell’approccio di Hubel e di Wiesel resta lo stesso che contraddistingue la ricerca attuale sulle basi neurali della coscienza.
IL PROGETTO FONDAMENTALE
La storia di Hubel e Wiesel, la loro avventura, è affascinante e istruttiva. Iniziamo dal principio. Per prima cosa, Hubel e Wiesel inserirono dei microelettrodi all’interno della corteccia visiva di alcuni gatti e di alcune scimmie allo scopo di registrare il comportamento elettrico di singole cellule. Cosi’ facendo arrecavano quale danno agli animali – dopotutto gli elettrodi dovevano passare attraverso i tessuti. I danni erano però isolati e la procedura sembrò permettere, almeno per un certo tempo, di studiare il comportamento più o meno normale di singole cellule.
Hubel e Wiesel non furono i primi a compiere registrazioni della corteccia; Vernon Mountcastle, presso la Johns Hopkins University, aveva registrato dalla corteccia somatosensoriale. Altri, tra cui Sir John Eccles, il grande fisiologo australiano, avevano già messo a punto la tecnica di registrazione di singole cellule della colonna vertebrale. Un contemporaneo di Hubel e Wiesel, Jerome Lettvin, presso il MIT, osservò che spettava a Eccels il merito di aver liberato la neurofisiologia dalla “melma sherringtoniana”. Stando a Lettvib, sarebbe stato Eccels a trovare per primo il modo di tradurre la neurofisiologia macroscopica di Sir John Scott Sherrington a livello macroscopico.
Stephen Kuffler, maestro di Hubel e di Wiesel alla John Hopkins e Horace Barlow, della Cambridge University e loro contemporaneo, intorno alla metà degli anni Cinquanta fecero importanti scoperte circa il comportamento delle cellule retiniche. Il campo recettivo di una cellula visiva è l’area della retina la cui stimolazione causa l’alterazione del tasso di scarica della cellula. (Detto altrimenti, possiamo pensare al campo recettivo della cellula come alla regione dello spazio situata di fronte all’animale cui la cellula risponde.) Kuffler scopri’ che le cellule gangliari della retina possiedono campi recettivi costituiti da cerchi concentrici. In cellule del genere, una macchia che cade nella regione centrale del campo recettivo attiva la cellula, mentre un oggetto a forma di anello che cade all’esterno della regione centrale ne inibisce la scarica. Una luce diffusa che colpisce in modo uniforme l’intero campo recettivo produce una reazione più debole di quella provocata da una macchiolina che cada al centro del campo recettivo. Le cellule fuori dal centro mostrano il comportamento inverso.
Hubel e Wiesel furono impressionati dalla scoperta di Kuffler, e fin dall’inizio sembrò loro chiaro quale strada avrebbero dovuto intraprendere: “La strategia […] appariva ovvia”, scrive Hubel. ” Torsten e io volevamo semplicemente estendere il lavoro di Stephen Kuffler al cervello. Volevamo registrate dalle cellule del corpo genicolato e da quelle della corteccia, mappare i campi recettivi con piccole macchie e indagare qualsiasi ulteriore elaborazione dell’informazione visiva.” Altri, prima di loro, ci avevano provato, ma senza alcun successo significativo. Il problema consisteva nell’individuare quali stimoli producessero un’attivazione nelle cellule corticali; in altre parole, si trattava di trovare il modo in cui era possibile far rispondere le cellule corticali. “Le cellule non volevano rispondere ai nostri stimoli”, lamenta Hubel. Alla fine, però, i due scienziati riuscirono a risolvere il problema; Hubel e Wiesel furono i primi a trovare il modo per far parlare le cellule della corteccia visiva.
La loro prima scoperta fu frutto del caso. I due stavano cercando il modo di stimolare una cellula corticale usando una serie di slide per proiettare delle macchie su uno schermo posto di fronte all’animale. Quale che fosse la macchia proiettata, nessuna risposta veniva dalle cellule che stavano registrando. Scrive Hubel:
Poi, gradualmente, cominciammo a riscontrare alcune vaghe e inconsistenti risposte stimolando da qualche parte a metà della periferia della retina. Stavamo inserendo la slide con la macchia nera all’interno dell’oftalmoscopio quando, all’improvviso, sull’audiomonitor la cellula sparò come una mitragliatrice. Dopo varie congetture riuscimmo a capire cos’era avvenuto. La risposta non aveva nulla a che vedere con la macchia nera. Quando avevamo inserito la slide nell’apparecchio, il suo contorno aveva proiettato una piccola ma netta ombra, una linea retta nera su uno sfondo di luce. Questo era ciò che la cellula voleva, e lo voleva in un ristretto tango di orientazioni.
Hubel e Wiesel avevano scoperto una cellula le cui risposte erano elicitate dalla presenza di linee con una certa orientazione. Dopo questa scoperta iniziale i progressi furono costanti, benché difficili. Hubel e Wiesel trovarono nella corteccia visiva del gatto classi di cellule il cui campo recettivo si differenziava in modo sorprendente da quello individuato dall’interno della retina o del corpo genicolato (una zona talamica intermedia tra la retina e la corteccia). Per esempio, individuarono cellule contraddistinte da campi recettivi dotati di un’organizzazione simile a quella basata sull’antagonismo centro/periferia riscontrato da Kuffler nelle cellule gangliari, ma senza la simmetria circolare tipica delle cellule retiniche. Gli stimoli ottimali per questo tipo di cellule erano delle linee fisse, collocate in una precisa posizione e con uno specifico orientamento. Chiamarono queste cellule “semplici”. Inoltre, trovarono alcune cellule che erano simili a quelle semplici in quanto rispondevano a linee o contorni aventi un certo orientamento, ma che, a differenza di quelle semplici, non erano sensibili alla posizione delle linee entro il campo recettivo. Scrive Hubel: “[Tale comportamento] si può facilmente spiegare notando che le cellule complesse ricevono l’input da più cellule semplici, ciascuna delle quali possiede lo stesso orientamento, ma si differenzia in base alla posizione”. Hubel e Wiesel iniziarono a credere che il sistema di cellule complesse fosse organizzato in modo gerarchico; ovvero che le cellule complesse fossero guidate da network di cellule semplici.
Questo fu solo l’inizio. Tra i risultati raggiunti da Hubel e Wiesel durante venticinque anni di collaborazione può essere annoverata la scoperta che le cellule complesse forniscono una risposta particolarmente robusta quando una linea si sposta all’interno del loro campo visivo, con alcune di esse che rispondono meglio al movimento in una direzione anziché in un’altra, nonché la scoperta di cellule ancor più specializzate, dette cellule “ipercomplesse”. Queste cellule sono ritenute selettive rispetto all’orientamento e alla direzione del movimento.
Hubel e Wiesel contribuirono alla realizzazione di significativi progressi nella comprensione dell'”architettura funzionale” della corteccia visiva, scoprendo, per esempio, che colonne di cellule con le proprietà dei relativi campi recettivi formavano unità funzionali. Inoltre, essi trovarono colonne selettive per l’orientamento, paragonate da Hubel a “piccole macchine che hanno cura di rilevare profili orientati in un certo modo e collocati in una zona specifica del campo visivo”.
Vi sono poi degli esperimenti sugli effetti, per lo sviluppo corticale, della deprivazione dei neonati di gatto e di scimmia dell’uso degli occhi tramite chiusura delle palpebre. Gli studi di Hubel e Wiesel mostrarono che siffatta deprivazione durante quel periodo critico dello sviluppo causava una perdita irreversibile di connettività nella corteccia, che danno luogo a casi di cecità permanente. Ciò indica che la capacità di vedere richiede esperienza. Se privati della vista durante un periodo critico, gli animali non saranno più in grado di vedere.
CRISTOFORO COLOMBO E IL CERVELLO
Le scoperta di Hubel e di Wiesel sono sensazionali. Sono fatti incontrovertibili, che parlano da soli. Cosi’ loro sembrano averle considerate. Scrive Hubel: “Le ipotesi, almeno quelle esplicite, erano pressoché assenti dal nostro modo di lavorare e di pensare. Consideravamo il nostro lavoro principalmente come un’attività esplorativa e, benché alcuni esperimenti fossero condotti per rispondere a specifiche domande, la maggior parte di essi era animata danno spesso spirito che spinse Colombo ad attraversare l’Atlantico per vedere ciò che avrebbe trovato”. E aggiunge: “E’ difficile ora considerare le cose con il senno di poi e capire quanto fossimo privi di qualsiasi idea su ciò che le cellule corticali potrebbero fare nella vita quotidiana di un animale”.
E’ strano e sorprendente che uno come Hubel dica queste cose! Cristoforo Colombo non attraversò l’Atlantico per vedere che cosa avrebbe trovato. Oggi sappiamo che Colombo aveva idee precise, anche se sbagliate, su quello che avrebbe incontrato. Ma lasciando da parte il celebre esploratore, è impossibile prendere sul serio l’affermazione per cui, durante il loro lavoro di ricerca, Hubel e Wiesel non furono guidati da una teoria né si mostrarono sensibili ad alcuna esigenza teorica. Come poterono non esserlo? Dopotutto, ci sono milioni di cellule, nel nostro cervello, straordinariamente interconnesse tra loro. Per farsi una qualsiasi idea di quale sia il contributo individuale delle cellule al funzionamento del cervello, occorre possedere anticipatamente una chiara nozione di ciò che il cervello sta facendo. E, infatti, Hubel e Wiesel l’avevano.
In Occhio, cervello e visione, Hubel scrive: “Sappiamo ragionevolmente bene a cosa serve [la corteccia visiva], cioè sappiamo cosa fanno le sue cellule nervose per la maggior parte della vita di una persona, e anche in che modo esse contribuiscono all’analisi dell’informazione visiva”. E aggiunge: “Questo stato di cose è piuttosto recente: mi ricordo bene di quando, negli anni Cinquanta, guardavo una fetta di corteccia visiva al microscopio, con tutti i suoi milioni di cellule stipati come uova in un paniere, e mi domandavo che cosa mai potessero fare, e se mai si sarebbe stati in grado di scoprirlo”.
Nel 1958, quando Hubel e Wiesel stavano ancora lavorando alle loro scoperte, nessuno sapeva come i neuroni funzionassero cosi’ da contribuire all’analisi dell’informazione visiva. In questo senso è vero che non si sapeva ancora a cosa “servisse” la corteccia visiva. Ma che essa fosse coinvolta nell’analisi dell’informazione visiva e che perciò singoli neuroni, da qualche parte e in qualche modo, dovessero fornire un contributo, era qualcosa che Hubel e Wiesel sapevano fin dall’inizio. O meglio, era qualcosa che davano per scontato. Consideriamo di nuovo il passo di Hubel citato nel paragrafo precedente, in particolare le battute conclusive ora riportate in corsivo: “La strategia […] appariva ovvia. Torsten e io volevamo semplicemente estendere il lavoro di Stephen Kuffler al cervello. Volevamo registrare dalle cellule del corpo genicolato e da quelle della corteccia, mappare i campi recettivi con piccole macchie e indagare qualsiasi ulteriore elaborazione dell’informazione visiva“.
Hubel e Wiesel non furono i soli a dare per contata una concezione del cervello come elaboratore di informazioni. Alla fine degli anni Cinquanta era credenza diffusa tra i neuroscienziati che la visione rappresentasse per il cervello un problema di elaborazione dell’informazione e che le parti del cervello dedicate a tale scopo potessero essere considerate un sistema di reti o di circuiti o, per usare un’espressione cara a Hubel e a Wiesel, di macchine in grado di “trasformare l’informazione” codificata da un sistema di neuroni in una rappresentazione sempre più raffinata e complessa di ciò che viene visto. Stando a Hubel e a Wiesel, il sistema visivo sarebbe costituito da cellule i cui campi recettivi godono di proprietà tali da fare di quelle cellule dei simboli di aspetti diversi quali l’orientamento e il colore. Una simile applicazione della teoria dell’informazione non era una novità quando Hubel e Wiesel iniziarono il loro lavoro. Rafael Lorente de Nò, allievo di Sanitiago Ramon y Cajal, aveva rappresentato le relazioni neurali sotto forma di network già negli anni Trenta del Novecento e la sua trattazione aveva influenzato il lavoro di Warren McCulloch, Walter Pitts e, tramite loro, John von Neumann (Walter Freeman, il neuroscienziato, ama sostenere che Lorente de Nò è il vero padre del computer digitale). E’ interessante notare che Claude Shannon, uno dei pionieri della teoria matematica dell’informazione, era scettico riguardo al fatto che il cervello potesse essere concepito come un elaboratore di informazione; egli riteneva che l’elaborazione dell’informazione richiedesse un trasmettitore, un ricevitore e un codice condiviso, niente che potesse essere riscontrato nel cervello. Lo scetticismo di Shannon non smorzò il generale entusiasmo per l’innovativo approccio. Cosi’, venticinque anni dopo l’inizio della loro collaborazione, Hubel e Wiesel furono premiati con il Nobel “per le scoperte riguardanti l’elaborazione dell’informazione nel sistema visivo”.
Hubel e Wiesel miravano sin dall’inizio a comprendere come il comportamento di singole cellule, e la loro organizzazione all’interno di assemblee più ampie, potessero assolvere il compito di analisi dell’informazione proprio della visione. Essi davano per scontato che la visione fosse un processo di analisi dell’informazione. E’ degno di nota che le loro fondamentali indagini nel campo della biologia della visione abbiano preso le mosse da una concezione ingegneristica, e non biologica, di ciò che è la visione.
IL MODELLO DELLA MENTE-COMPUTER
David Marr, nel suo celebre libro intitolato Vision, pubblicato nel 1982, l’anno successivo a quello in cui Hubel e Wiesel vinsero il premio Nobel, chiarisce la concezione della visione su cui essi si erano implicitamente basati. Secondo Marr, la visione è un processo di analisi dell’informazione realizzato nel cervello. Questa era certo anche la concezione di Hubel e Wiesel. La visione è il processo che permette di scoprire come stanno le cose a partire dalle immagini oculari. Ossia, il processo che consente di estrarre una rappresentazione di ciò che si trova sulla scena dell’informazione sul carattere della luce disposta sulla superficie dei recettori oculari.
Come abbiamo osservato, l’uso di idee della teoria dell’informazione per capire cosa faccia il cervello era già radicato alla fine degli anni Cinquanta. Se risaliamo ancora più indietro, al XIX secolo, troviamo che Helmholtz aveva proposto di considerare la percezione un processo inferenziale: il cervello costruisce e controlla le ipotesi concernenti quali eventi del mondo producano tali impressioni. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, questa è stata l’idea guida nello studio della visione nel corso dell’ultimo secolo.
L’innovazione introdotta dall’opera di Marr – che gli permise si compiere un passo avanti rispetto alle scoperte di Hubel e Wiesel – consiste nell’attenzione e nella lucidità concettuale con cui affronta la teoria proposta. Marr scrive che “provare a comprendere la visione studiando soltanto i neuroni è come provare a comprendere il volo di un uccello studiando solo le piume: semplicemente non può essere fatto”. Occorre una concezione teorica di ciò che i neuroni (o le piume) stanno facendo per decidere persino quali fatti siano rilevanti. Ovvero, occorre caratterizzare che cosa un sistema stia facendo in termini più astratti. E questo non a causa di una qualche peculiarità propria della visione, ma in funzione della particolare sfida esplicativa che si affronta quandosi vuole comprendere un meccanismo di elaborazione dell’informazione. Prendiamo un caso semplice. Non è possibile comprendere come funzioni un registratore di cassa se non si sa a che cosa serve: a sommare, cioè, numeri per tenere conto dei saldi. Una volta chiarita la funzione della macchina, allora è possibile chiedersi: come può farlo? Solo allora sarà possibile cominciare a indagare i diversi modi in cui quella macchina, o qualunque altra macchina, possa essere organizzata cosi’ da assolvere alla funzione che le è propria.
Esistono molte procedure o istruzioni diverse per ottenere lo stesso risultato: quelli che i matematici chiamano algoritmi. Quando si sceglie un algoritmo, di fatto si sceglie un modo per rappresentare un problema e per risolverlo. Abbiamo tutto familiarità, per esempio, con gli algoritmi per fare un’addizione che coinvolgono l’uso di una penna, di un foglio e della notazione araba. Per sommare i numeri non occorre comprendere l’addizione in un senso profondo. Esistono, però, diversi algoritmi per la somma: si seguiranno procedure diverse a seconda che i numeri siano rappresentati nella notazione romana o un quella binaria. Allo stesso modo, esistono diversi meccanismi fisici che possono essere utilizzati per eseguire una somma. Si possono usare una penna e un foglio, un abaco, un registratore di cassa oppure un computer digitale. Per comprendere come funzioni una macchina, occorre trovare una risposta a tre domande. La prima: che tipo di funzione sta computando? La seconda: quale algoritmo o regola sta usando? La terza: in che modo questi algoritmi sono fisicamente implementati nella macchina?
La bellezza di un simile approccio sta nel fatto che esso permette di portare avanti lo studio di un meccanismo di elaborazione dell’informazione anche se la fisica o l’elettronica o la fisiologia di tale meccanismo resta sconosciuta. Se la visione è i processo che produce una rappresentazione della scena a partire dall’informazione sulla lunghezza d’onda o sull’intensità di punti luminosi che colpiscono gli occhi, allora possiamo cominciare a indagare quale tipo di regola permetterebbe questo tipo di analisi dell’informazione visiva anche prima che sia possibile saperne abbastanza del comportamento delle cellule degli occhi e del modo in cui sono collegate l’una all’altra in una rete. L’approccio alla mente, e alla visione in particolare, via teoria dell’informazione permette di capire sia che i processi sono realizzati in un mezzo fisico (il cervello, un computer, qualsiasi altra cosa) sia che essi non sono si per sé qualcosa di intrinsecamente fisico. Sono relativi alla teoria dell’informazione, ovvero sono computazionali.
Eccoci ancora di fronte al paradosso per cui la visione è resa oggetto dell’indagine neurofisiologica solo al prezzo di concettualizzarla come processo, in e per sé, non biologico (ovvero computazionale) cui capita, negli esseri umani, di essere realizzato nel cervello. Il fatto che possiamo vedere – grazie al lavoro di quell’umido, appiccicoso insieme di fette di carne che è il nostro cervello – non fa della visione un’attività intrinsecamente neurale, non più di quanto lo sia una partita a scacchi. Per capire come il cervello giochi a scacchi, occorre prima capire gli scacchi e i problemi che essi sollevano. Cosa importante, per capire ciò non occorre capire il funzionamento del cervello o quale sia la struttura elettronica di un computer. A scacchi giocano solo sistemi (uomini o macchine) fatti di atomi e di elettroni. Ma gli scacchi non sono un fenomeno che possa essere compreso a questo livello. Lo stesso vale per la visione. Per comprendere come funzioni il cervello, cosi’ da rendere possibile la visione, secondo la prospettiva della teoria dell’informazione, occorre concepire la visione nei termini di un processo facilmente implementabile in un computer.
DAVVERO IL CERVELLO E’ UN PROCESSORE DI INFORMAZIONE?
L’idea di Marr, Hubel e Wiesel è che il sistema visivo – le parti del cervello dedicate alla visione – svolga un processo di elaborazione dell’informazione: estrae informazione sull’ambiente dall’immagine retinica, costruendo in questo modo una rappresentazione interna di ciò che ci circonda. Per esempio, il cervello è in grado di notare la presenza di nette discontinuità nell’intensità della luce in diversi punti; nella sua rappresentazione interna tali discontinuità assumono l’etichetta di “contorni”. Questo è ciò che consentirebbe la visione: un processo attraverso il quale il cervello assume configurazioni di luce sulla retina e le trasforma nella rappresentazione di ciò che vi è nella scena posta di fronte agli occhi.
L’approccio al cervello e alla visione basato sulla teoria dell’informazione ha rappresentato per quasi un secolo un punto fermo della scienza. Potete accendere la radio in qualunque giorno della settimana e sentire qualcuno affermare tranquillamente, come se si trattasse di un dato di fatto, che il linguaggio è elaborato nell’emisfero destro del cervello, oppure che è la neocorteccia a computare le nostre funzioni cognitive superiori. Non siamo quindi sorpresi nell’apprendere che, secondo Marr, Hubel, Wiesel e altri, la visione è un processo neurale in cui il sistema visivo ricava informazioni dall’immagine retinica.
Ma davvero il cervello è un processore di informazioni? C’è un’ovvia ragione per mettere in dubbio una simile conclusione. Sappiamo cosa significhi dire, per esempio, che un detective ricava informazioni su un intruso da un’impronta delle sue scarpe, o che un oceanografo è in grado di trarre informazioni su un clima preistorico mediante lo studio dei fossili di organismi monocellulari riportati a galla dall’attuale fondale oceanico. Questi esempi illustrano perfettamente il senso del “ricavare informazioni” su un oggetto a partire da un altro oggetto. La spiegazione del fatto che le impronte e i fossili contengono informazioni, rispettivamente, su un intruso e sul clima è che esiste una relazione causale definita fra l’intruso e le proprietà dell’impronta, o fra il clima di milioni di anni fa e la chimica di un fossile, come la foraminifera, oggi. Ciò che consente a un detective e a un oceanografo di ricavare tali informazioni è il fatto che ciascuno di loro conosce il modo in cui gli oggetti cui ora ha accesso (l’impronta, il fossile) sono stati modellati in virtù di ciò che essi intendono apprendere.
Le cose cambiano, però, quando si parla di cervello e di immagine retinica. Senza dubbio l’immagine retinica è ricca di informazioni circa la scena che si trova di fronte agli occhi; dopotutto, esistono meccanismi affidabili e ben compresi che riguardano il modo in cui la prima viene posta in essere dalla seconda. Presumibilmente, uno scienziato ben attrezzato sarebbe in grado di ricavare tali informazioni. Ma il cervello non è uno scienziato né un detective; non consce nulla e non possiede occhi per esaminare l’immagine retinica. Non ha la capacità di fare inferenze su alcunché, per non parlare delle inferenze circa le cause ambientali remote dello stato osservabile dalla retina. Come possiamo, allora, dare un senso all’idea che il cervello sia uno strumento per elaborare l’informazione?
C’è un pericolo di vacuità nel “modello computazionale della mente”. Il nostro scopo è comprendere le basi biologiche della mente. E’ difficile vedere come sia possibile fornire un contributo al raggiungimento di un simile risultato se siamo per scontato che i nostri poteri mentali possano essere spiegati facendo riferimento ai poteri cognitivi del cervello. Noi – noi uomini adulti e gli altri animali – pensiamo, vediamo, sentiamo, giudichiamo, inferiamo. E’ un discorso circolare dire che quello che rende possibile tutto ciò – quello che spiega gli straordinari poteri della mente – è che il nostro cervello, come un astuto scienziato, è in grado di scoprire le cause distali dell’immagine retinica. Si d’ per scontata la natura dei poteri della mente senza spiegarli. Le scienze cognitive sono colpevoli di ragionare come se vi fossero agenti possessori di mente (omuncoli) all’opera dentro di noi?
IL CERVELLO COMPUTAZIONALE
Si può credere che l’esistenza del computer digitale – intendo quell’apparecchio ormai di largo consumo – fornisca una prova positiva che un mero meccanismo come il cervello sia in grado di processare informazione. I computer, dopotutto, fanno calcoli, forniscono modelli tridimensionali a partire dal disegno di alcune linee. I computer sono in grado di eseguire lo spelling correttamente e di giocare a scacchi, e ci riescono senza ricorrere a trucchi magici o all’aiuto di qualche piccolo essere al loro interno. Quale migliore ragione per pensare che dovremmo prendere sul serio l’idea che il cervello sia a tutti gli effetti un computer organico? Qualsiasi mistero circondi l’idea che il cervello non sia altro che un estrattore di informazione che ragiona in maniera inferenziale, esso si dissolve non appena consideriamo attentamente il fatto che anche i più semplici degli artefatti umani, come i computer, sono in grado di pensare in questo modo.
Certi problemi ammettono una soluzione meccanica. Se qualcuno vuole sapere quante persone si trovano all’interno di una stanza, non ha che da contarle. Arrivare alla soluzione non richiede altro che la capacità di aggiungere un’unità dopo l’altra. Analogamente, non occorre comprendere una divisione complicata per trovare la soluzione di un problema che la implichi. Basta fare solo un po’ di attenzione. A scuola ci è stata insegnata una procedura specifica che, per risolvere questo tipo di problemi, ricorre alla scrittura, al sistema di notazione arabo e al fatto che sappiamo come dividere, sottrarre, sommare e moltiplicare numeri molto piccoli. Qualsiasi persona sufficientemente attenta può farlo. Una macchina può riuscirci. Allo stesso modo, non occorre essere grandi chef per seguire la ricetta di un grande cuoco, e non occorre essere in grado di afferrare il vasto numero di combinazioni e permutazioni possibili in un cubo di Rubik per imparare il trucco che permette di “risolverlo” in pochi secondi.
Un algoritmo è una ricetta, o una procedura, per risolvere un problema. E’, per cosi’ dire, un programma che permette a chiunque (un bambino, un idiota, una macchina) di raggiungere la soluzione desiderata in un numero finito di passi. Alcuni problemi possono essere risolti da un algoritmo; altri no. Non esiste una procedura generale per decidere, dato un qualsiasi rompicapo o problema, se esso sia “decidibile” (come dicono i matematici) attraverso metodi formali puramente “meccanici”. E’ stato dimostrato, tuttavia, che ogni problema che si riveli meccanicamente (o “effettivamente”) decidibile può essere computato da qualunque sistema formale di una data classe. Un computer digitale, come sappiamo, è questo sistema formale fisicamente realizzato.
Sarebbe erroneo ritenere che tali risultati ottenuti nell’ambito della matematica della computabilità – o i successivi raggiunti nel campo dell’ingegneria informatica – provino che i nostri cervelli sono, a tutti gli effetti, dei computer, giacché una simile affermazione poggia su un errore. Nessun computer realizza effettivamente un calcolo, neanche uno semplice. Certo, eseguire ciecamente i passi di una ricetta senza alcuna comprensione può essere un modo di trovare una risposta a un rompicapo. Capire un problema o una computazione, però, non consiste nel mero eseguire ciecamente una regola. Riflettendo sulla nostra esperienza scolastica ci accorgiamo facilmente che c’è differenza tra il comprendere la soluzione di un problema e ottenere un buon punteggio in un test perché abbiamo imparato a memoria la procedura per risolvere quel problema. I computer possono fornire risposte, ma poiché lo fanno seguendo ciecamente delle regole, la loro azione è priva di comprensione.
Ancora più importante, i computer nemmeno obbediscono ciecamente a regole. Non seguono ricette. Proprio come un orologio non sa che ore sono, anche se noi lo utilizziamo per tenere conto dello scorrere del tempo, cosi’ i computer non comprendono le operazioni che svolgiamo con essi. Noi pensiamo attraverso i computer, ma i computer non pensano: sono strumenti. Se i computer sono elaboratori di informazioni, lo sono allo stesso modo degli orologi. E questo fatto non ci aiuta a comprendere i poteri della cognizione umana.
LA MENTE NON E’ NELLA TESTA
Il fatto che i computer non pensino può essere inteso come una buona ragione per credere che anche i cervelli, in quanto computer, non pensino. Il filosofo John Searle, mio collega all’università di Berkley, ha affrontato la questione in modo convincente. Searle sostiene che la coscienza e le nostre capacità cognitive scaturiscono dalla natura intrinseca dell’attività neurale. Esse sono “causare dal – e realizzare nel – cervello umano”. I computer risolvono i problemi e rappresentano il mondo solo in modo derivato, grazie al fatto che noi li trattiamo come se fossero in grado di farlo. Le abilità del nostro cervello, però, non sono derivate; sono potenzialità originali. Il cervello pensa e rappresenta.
Questa è, però, esattamente la conclusione sbagliata da trarre dal fatto che i cervelli non pensino computando: non lo fanno cosi’, ma questo non significa che lo facciano in qualche altro modo. I cervelli non pensano. L’idea che un cervello sia in grado di rappresentare da solo il mondo non ha più senso dell’idea che dei semplici segni sulla carta siano in grado di significare qualcosa da soli (ovvero indipendentemente da una più ampia pratica sociale consistente nel leggere e nello scrivere). Il mondo si manifesta davanti a noi grazie ai rapporti che intratteniamo con esso. Non è prodotto nel cervello né è un prodotto del cervello. E’ li’ per noi, e noi possiamo accedervi. Ciò che fa si’ che i miei pensieri siano diretti verso questo compito (giocare a scacchi, poniamo), o verso questo oggetto (per esempio, un bicchiere pieno d’acqua) non è l’intrinseca natura dei miei stati computazionali interni. Sono d’accordo con Searle su questo punto. Ma la ragione di ciò è che quello che dà contenuto ai miei pensieri è il mio coinvolgimento con il mondo. Nessuna spiegazione del modo in cui sono strutturato internamente è sufficiente, da sola, a fornire un significato e un riferimento ai miei stati mentali. Il significato non è qualcosa di intrinseco, come Daniel Dennett ha giustamente osservato; non si tratta di qualcosa di interiore. Il significato è relazionale. E la relazione grazie alla quale i nostri pensieri, le nostre idee e le nostre immagini sono dirette verso gli eventi, le persone e i problemi che popolano il mondo coincide con il nostro essere immersi tra le cose che ci circondano e con la nostra dinamica interazione con esse. Il mondo è il nostro terreno; è il mondo che dà significato.
I limiti di un modello computeristico del mentale corrispondono a quelli di qualsiasi altro approccio alla mente che restringa la nozione di quest’ultima a stati interni degli individui. Le scienze cognitive hanno cercato di svelare come il cervello possa essere capace di pensare assumendo che esso sia una sorta di computer digitale. Ma ciò che ora emerge è che i computer non possono pensare (non vedono, non giocano a scacchi) e per la stessa ragione neanche i cervelli sono in grado di farlo.
La tesi centrale di questo libro consiste nel riconoscere che il cervello, di per sé, non è una fonte d’esperienza o di cognizione. L’esperienza e la cognizione non sono sottoprodotti del nostro corpo. Ciò che fornisce agli stati di un animale il loro significato è il coinvolgimento dinamico che esso ha con l’ambiente che lo circonda.
IL PROBLEMA MENTE-CORPO PER I ROBOT
Il film Blade Runner, cui ho accennato nel secondo capitolo, rende vivido ciò che sembra incontrovertibile: non esiste alcuna ragione di principio per negare agli schiavi ribelli il rispetto e la considerazione che crediamo siano dovuti a noi in quanto esseri umani. Certo, nessun fatto che abbia a che fare con la costituzione interna dei replicanti può giustificare un simile rifiuto. I replicanti sono costruiti, ma in un certo senso lo siamo anche noi. A loro manca una certa autonomia; ma anche per noi le cose non stanno diversamente. Anche in età adulta dipendiamo dai genitori, dalla famiglia, dagli amici, dalla società per la nostra stessa sopravvivenza. Sicuramente ai replicanti mancano delle componenti biologiche; non sono fatti dello stesso materiale di cui siamo fatti noi. Ma proprio questo è il punto: non vi è alcuna connessione necessaria tra ciò che siamo e ciò di cui siamo fatti. Non sarebbe altro che un pregiudizio continuare a insistere sul fatto che una simile connessione esista.
Ovviamente, si possono trovare molte ragioni pratiche per ritenere che occorrano cervelli come i nostri per avere menti come le nostre. La tecnologia che permette la creazione di menti artificiali è lungi dall’essere realizzata. Il punto è che per quanto comprendiamo come funzioniamo, ciò non esclude che, prima di un esame caso per caso, si possa un giorno scoprire, o addirittura imparare a costruire, menti di tipo diverso dal nostro. Una curiosa conseguenza di questa linea argomentativa è che, se anche Searle avesse ragione nel ritenere che i computer non sono in grado di pensare e che quindi i nostri cervelli non pensano perché sono dei computer, resta una questione empirica aperta se un giorno riusciremo o meno a costruire dei robot dotati di coscienza con un computer digitale al posto del cervello. Resta pertanto aperta la questione se i nostri cervelli siano, in qualche senso, dei computer.
DIFETTI NELLE FONDAMENTA
Marr, Hubel e Wiesel potrebbero aver avuto ragione quando sostenevano che possiamo conoscere qualcosa su come funziona il cervello pensandolo come un elaboratore di informazioni. Detto in altri termini, è ragionevole assumere un approccio funzionalista al cervello chiedendosi: che tipo di problemi è impegnato a risolvere il cervello? Che cosa fa? Per questo motivo è ragionevole, da un punto di vista metodologico, affrontare la visione e gli altri problemi mentali come fossero capacità di elaborazione dell’informazione. Questi autori, però, sembrano avere completamente trascurato che tale decisione metodologica non può di per sé costringerci a considerare la visione come un problema di elaborazione dell’informazione realizzata nel cervello. Niente ci spinge ad assumere che la visione sia un processo che avviene tra gli occhi e la nuca. E’ proprio quest’assunzione – ovvero il fatto che quanto occorre per comprendere la visione, comunque la si caratterizzi, si trovi all’interno del cervello – che segna il destino di questo tipo di approccio. L’attività neurale non può semplicemente assurgere a livello della coscienza, neanche quando questa attività è descritta nei termini della teoria dell’informazione.
L’approccio di Hubel e Wiesel alla visione si basa sull’idea che il cervello veda elaborando speciali tipi di segnali o di simboli, che esso veda costruendo immagini interne. In realtà, il cervello non vede; non esiste alcuna ragione per ritenere che la visione avvenga all’interno del cervello. E a che cosa poi servirebbero i simboli se non c’è nessuno che li legge?
Mentre altri scienziati sono incauti – strombazzando l’esistenza dei “neuroni della nonna”, ovvero neuroni selettivi per stimoli assai specifici come il volto della propria nonna – Hubel e Wiesel non lo furono. Esitarono persino a riferirsi alle loro cellule selettive per le linee e l’orientamento come a rilevatori di contorni e orientamenti, sebbene sembri che le interpretassero proprio in questo modo. Basta leggere questo ambiguo passaggio tratto dalla lezione che Hubel tenne in occasione dell’assegnazione del Nobel:
Le cellule semplici o complesse specifiche per l’orientamento “rilevano” – o sono specifiche per – la direzione di un breve segmento. Tali cellule non sono cosi’ da considerarsi dei “rilevatori di linee”: non sono rilevatori di linee più di quanto non siano rilevatori di curve. Se la nostra percezione di una linea o di una curva dipende dalle nostre cellule semplici o da quelle complesse, allora presumibilmente dipende da loro insieme, e come l’informazione proveniente da tali cellule sia ricomposta nel corso delle fasi successive del suo percorso, fino a produrre quello che chiamiamo il “percetto” di linee o curve (ammesso che vi sia qualcosa del genere), continua ad essere un assoluto mistero.
In questo significativo passaggio Hubel esprime in modo profondo e – credo – giustificato i propri dubbi riguardo al quadro teorico che motiva le ricerche che gli sono valse il Nobel, dando loro pieno senso. Se il sistema visivo non produce il “percetto”, per usare le parole di Hubel, sulla base di quel tipo di elaborazione che proprio il suo lavoro ha messo in luce, qualcuno ci vorrà scusare se chiediamo perché, per comprendere la visione, dovrebbe essere importante il fatto che vi siano nella corteccia cellule “specializzate” che rispondono solo ad alcuni tipi di stimoli quali quelli individuati da Hubel e Wiesel. Posto che la corteccia visiva sia impegnata a costruire la rappresentazione di una scena sulla base dell’informazione contenuta nella retina, allora l’esistenza di cellule selettive rispetto allo stimolo sembrerebbe offrire la prova di come il processo computazionale si dispieghi. Ma se, come riconosce lo stesso Hubel, resta un “assoluto mistero” se e in che modo il cervello esegua questo compito computazionale, allora occorre ammettere che non abbiamo alcuna ragione per ritenere che la scoperta di Hubel e Wiesel sia in grado di dirci qualcosa sulle basi cerebrali della visione.
E’ una dura conclusione, difficile però da evitare. L’idea complessiva che i segnali passino dai recettori della retina alle cellule gangliari, da queste alle cellule genicolate e quindi, attraverso le cellule semplici, a quelle complesse e a quelle ipercomplesse, attivando alla fine la nostra esperienza di vedere il mondo, può e dovrebbe essere messa in discussione. Com’è già stato detto in precedenza, oggi sappiamo che vi sono più connessioni che vanno dalle aree visive superiori a quelle inferiori di quelle che vanno nella direzione opposta. Come a dire, c’è feedback. Cosi’ qualunque cosa avvenga, non si tratta del semplice processo gerarchico invocato da Hubel e Wiesel.
Oggi sappiamo che il comportamento delle cellule nella corteccia varia in funzione di ciò che l’animale sta facendo o di ciò cui sta prestando attenzione. Il fatto che la modulazione del comportamento delle cellule dipenda dal contesto dell’attività dell’animale è qualcosa che la ricerca di Hubel e Wiesel non ha preso n” avrebbe potuto prendere in considerazione, in quanto essi hanno lavorato solo con animali non coinvolti nell’esecuzione di alcun compito attivo: i loro soggetti erano privi di coscienza. In altri termini, erano anestetizzati, paralizzati, sotto respirazione artificiale; gli stimoli erano mostrati a occhi le cui palpebre erano tenute aperte con clip, e che erano mantenuti umidi e puliti attraverso l’uso di lenti a contatto. Solo l’assunzione che la visione è qualcosa che accade passivamente all’interno del cervello può giustificare ricerche di questo tipo nel tentativo di comprendere come funziona la visione. Dovremmo certo mettere in discussione questo presupposto. Ricordate, non abbiamo alcuna prova di come l’attivazione neurale renderebbe o potrebbe rendere possibile la nostra esperienza visiva. Inoltre, è bene avere presente che gli animali hanno sviluppato la visione non allo scopo di rappresentarsi il mondo nella propria testa, ma per poter vivere impegnati in esso – per esempio, per poter inseguire le prede, cercare un compagno e fuggire dai predatori e dagli altri pericoli.
CONCLUSIONE: LA MENTE NON E’ IL SOFTWARE DEL CERVELLO
I computer non possono pensare da soli, proprio come i martelli non possono, da soli, conficcare un chiodo nel muro. Sono strumenti che utilizziamo per pensare. Per questo motivo non facciamo alcun progresso cercando di capire come il nostro cervello penso continuando a supporre che si tratti di un computer. In ogni caso, i cervelli non pensano; non possiedono una mente; sono gli animali che ne possiedono una. Per comprendere il contributo che i cervello da alla vita della nostra mente occorre abbandonare una volta per tutte l’idea che le nostre menti siano realizzate all’interno di noi da eventi interni. Una volta chiarito questo punto, saremo spinti a ripensare il valore persino di una ricerca che ha guadagnato il premio Nobel. Si tratta di una conseguenza spiacevole, ma faremmo meglio ad accettarla