Da Perché non siamo il nostro cervello, di Alva Noë, capitolo 3. Edito in Italia dalla Raffaello Cortina.
“Dove ci troviamo? In una serie di cui non conosciamo gli estremi e che crediamo non ne abbia alcuno. Ci svegliamo e ci troviamo su una scala; ci sono scale sotto di noi che ci sembra di avere salito; ci sono scale sopra di noi, più di una, che vanno verso l’alto, fuori dalla nostra vista. Ma il genio che, secondo la vecchia credenza, sta sulla porta attraverso la quale noi entriamo e che di dà il Lete da bere, perché noi non possiamo più raccontare delle favole, ci preparò una mistura troppo forte, e ora, a mezzogiorno, noi non possiamo scuoterci dal nostro letargo.”
Ralph Waldo Emerson
Come scaturisce la coscienza nel cervello? In questo capitolo darò prova che ciò non accade. Possiamo spiegare come l’attività cerebrale dia origine alla coscienza solo se riconosciamo che ciò che conta per la coscienza non è l’attività neurale in quanto tale, bensì l’attività neurale in quanto immersa nella più ampia azione e interazione di un animale con il mondo che lo circonda. Questo non è che un altro modo per dire che l’attività neurale di per sé non determina la coscienza. La mia idea è che il lavoro compiuto dal cervello ha la funzione di facilitare un modello dinamico di interazione che coinvolge, oltre al cervello, anche il corpo e l’ambiente. L’esperienza è messa in atto dagli esseri coscienti con l’aiuto del mondo.
Membrane magiche
Quali aspetti delle cellule cerebrali ci permettono di vedere, di sentire e di provare stupore? Si tratta di una domanda ingannevole. Se c’è una cosa che ora sappiamo è che il carattere dell’esperienza umana non è determinato dalle proprietà dei singoli neuroni. Il neurone rappresenta in questo caso l’unità di misura sbagliata. Le cellule cerebrali sono perlopiù identiche. Hanno lo stesso schema base – corpi cellulari innervati da folti dendriti e in grado di attivare una trasmissione elettrica lungo gli assoni – e si comportano pressapoco allo stesso modo, prendendo parte a configurazioni di attivazione elettrochimica.
Spiegare la mente in termini di cellule è come spiegare la danza in termini di muscoli: non è possibile. Se il carattere della nostra vita mentale dipende da ciò che accade nel cervello – ed è così – allora dobbiamo distogliere la nostra attenzione dai singoli neuroni. È ormai accettato che, se vogliamo avere qualche possibilità di comprendere le basi cerebrali della coscienza, dobbiamo ampliare il nostro sguardo fino ad abbracciare popolazioni di neuroni su larga scala e la loro attività dinamica nel tempo.
Ma perché fermarsi lì? Non è che la funzione cerebrale divenga trasparente quando si considera la dinamica di aggregazioni di cellule su larga scala. Se uno potesse atterrare sulla superficie del cervello come un microscopio aliena, non sarebbe in grado di dire, sulla base delle locali scariche neurali, se una certa esperienza sia in corso o meno, per non parlare se si tratti di un’esperienza visiva o meno. Ciò che spiega questa opacità esplicativa del sistema neurale è che persino la dinamica neurale su larga scala non permette di raggiungere il giusto livello di analisi necessario per dare senso alla coscienza animale. Come il fatto che non possiamo comprendere i fenomeni legati alla coscienza in termini di singole cellule ci spinge a prendere in considerazione il potere causale di popolazioni cellulari, così i limiti di ciò che possiamo comprendere in termini di popolazioni ci porta a espandere ulteriormente la nostra concezione e a pensare i sistemi neurali come elementi di un più ampio sistema, tale da includere il restante corpo dell’animale nonché la sua situazione nell’ambiente e la sua interazione con esso. Probabilmente, la scala adeguata per la comprensione della funzione neurale – ovvero, del contributo del cervello alla mente – è quella dell’essere vivente situato nel proprio ambiente.
Se questa appare come una proposta poco plausibile è perché tradizionalmente abbiamo imparato a considerare la nostra testa come il confine che delimita ciò che si trova dentro rispetto a ciò che si trova fuori. Noi siamo dentro: la mente dipende esclusivamente da ciò che accade dentro di noi. Stando alla visione tradizionale, il ruolo del “mondo esterno” rispetto alla coscienza è semplicemente quello di provvedere stimoli esterni o urti periferici. Perché mai dovremmo pensare che il confine definito dai limiti del nostro cervello sia speciale rispetto agli altri confini che possono essere delineati all’interno dello stesso cervello (per esempio, tra le singole cellule, tra le popolazioni di cellule o tra le diverse aree del cervello)? Come Susan Hurley amava dire, il cranio non è una membrana magica; allora perché non prendere seriamente in considerazione la possibilità che i processi causali effettivamente rilevanti per la coscienza siano in grado di oltrepassare i confini e dunque di coinvolgere il mondo circostante?
La mia idea è che, se vogliamo comprendere la coscienza, dobbiamo prendere sul serio tale possibilità. In questo capitolo comincerò a mostrare perché.
Nessun uomo è un’isola
Il cervello infantile è plastico e modificabile. Le stimolazioni sensoriali hanno l’effetto di produrre quelle connessioni e quelle funzioni che rendono possibile l’emergere di una normale coscienza. Per questa ragione, la deprivazione sensoriale può produrre un danno irreversibile. Hubel e Wiesel lo hanno mostrato allevando alcuni gatti in completa assenza di luce. Quello che hanno dimostrato è che gli animali deprivati della vista durante un periodo critico della loro infanzia non sarebbe più in grado di vedere. I mammiferi neonati, lo sappiamo, sono esseri plastici e aperti; in un senso assai pregnante è l’ambiente stesso in cui viviamo a produrre le condizioni che ci permettono di farne esperienza. Nonostante ciò, Hubel e Wiesel ci hanno mostrato che esistono dei limiti alla plasticità del cervello.
Particolarmente importanti per lo sviluppo neurologico del bambino sono le relazioni che questi instaura con le altre persone. Consideriamo la questione che Bruce Wexler ha trattato in un eccellente libro dedicato di recente a questo tema: perché i mammiferi succhiano il seno? Per nutrirsi, certo; ma anche per essere in contatto – ovvero, per ricevere quegli stimoli che sono il necessario sostentamento per lo sviluppo del cervello. Kenneth Kaye ha dimostrato che l’alimentazione può avere un ruolo fondamentale nello sviluppo mentale del bambino. Tutte le madri che sono state studiate (e solo quelle appartenenti alla specie umana), durante le pause tra una poppata e l’altra, cullano spontaneamente il proprio bambino (e questo vale anche per i bambini che sono nutriti con il biberon); i piccoli, a loro volta, attendono spontaneamente finché la madre non ha smesso di cullarli, dopodiché tornano a succhiare. Kaye suggerisce che un simile comportamento può essere inteso come una forma primitiva di fare a turno. Non è difficile guardare a questo processo come a un esempio di protoconversazione o, almeno, come a una sorta di necessario precursore della modalità unicamente umana di comunicazione.
Le madri non si limitano a curare i propri bambini. Tra il bambino e la madre si crea uno scambio a doppio senso che costituisce lo scenario all’interno del quale il bambino si sviluppa sia fisiologicamente sia psicologicamente. Un bambino impara a ritrovare la calma e la serenità quando viene calmato e rasserenato dalla propria madre. I processi fisiologici dei bambini – il ruttino, per esempio – sono spesso agevolati dalla madre. Chi si prende cura di un bambino ne manipola la postura, sollevandolo e facendolo sedere oppure distendendolo e facendolo sdraiare, rispettivamente per svegliarlo o per addormentarlo. Allo stesso modo, chi si prende cura del bambino ne dirige l’attenzione ora su quello ora su questo, e manipola gli oggetti per lui. L’attenzione della madre ai bisogni del bambino permette a quest’ultimo di imparare a gestire le proprie necessità. Nell’accezione effettiva del termine, la “diade” bambino-madre è un’unità dalla quale il bambino emerge solo gradualmente come individuo. Possiamo parlare di attaccamento, ma io preferisco parlare di unità. Per certi versi, la separazione dalla nostra figura materna è, almeno per molti di noi, solo parziale; in nessun evento della nostra vita vi è per noi qualcosa come un completo distacco dalla comunità formata dalle altre persone o dal più ampio panorama di situazioni e condizioni ambientali – luci, suoni, odori, la terra, l’aria, la tecnologia – in funzione delle quali noi diveniamo ciò che siamo.
La maturazione non è tanto un processo di autoindividuazione e di distacco, quanto un processo di crescita in sintonia con la nostra situazione ambientale. Noi ci stacchiamo l’uno dall’altro, ma ci attacchiamo al mondo fuori. Ci integriamo. Quando impariamo a camminare o a padroneggiare il linguaggio, quando sviluppiamo un’amicizia, otteniamo un ruolo, impariamo a “navigare” e a utilizzare la tecnologia, ci radichiamo in un ambiente pratico. Questa è certo una delle ragioni per cui i cambiamenti drastici nel proprio ambiente, specie se occorsi in tarda età – per esempio, durante la migrazione da un paese all’altro, in conseguenza alla perdita del proprio consorte, durante un periodo di rapido cambiamento tecnologico -, rappresentano delle sfide enormi, se non devastanti. La perdita di un certo aspetto dell’ambiente con cui le proprie attività quotidiane erano intimamente interconnesse rappresenta la perdita di una parte di se stessi. Tornerò su questo argomento nel prossimo capitolo.
Il punto non è che non si possano insegnare a un vecchio cane nuovi trucchi. A volte ci si riesce. Il vero problema è che per farlo occorre che il cane torni nuovo. Una volta qualcuno mi disse che sarebbe bene cambiare lavoro pressapoco ogni sette anni. Mantiene giovani. Una spiegazione potrebbe essere che simili cambiamenti spingono a rinnovare se stessi, a nuovi sviluppi in relazione con nuove situazioni esterne, nuove abitudini, nuovi modi di coinvolgimento con il mondo che ci circonda. Un altro effetto di questo tipo di rottura è che il tempo è sentito, in maniera alquanto interessante, procedere più lentamente. Quando la vita è monotona, i giorni, le settimane e i mesi si confondono l’uno con l’altro; ogni giorno è simile a quello successivo e i giorni formano un arco lungo cui si dispiega il nostro progetto di vita. Quando, però, la routine è bruscamente interrotta – dopo un trasloco o durante un viaggio -, ogni giorno acquista una caratteristica peculiare. Una settimana trascorsa in una nuova città può sembrare lunga un’eternità! È uno scambio stuzzicante. Rinunciare alla comodità e, per un verso, alla produttività in cambio di tempo e giovinezza!
Possiamo osservare una dinamica simile nello sviluppo di un adolescente. Un’estate può apparire come una magica eternità agli occhi di un ragazzo. Pensiamo ai giochi, ai dolci, o ai bagni, ai libri, agli amici, allo shopping e alle interminabili serate! Con il crescere le giornate sono inevitabilmente incanalate all’interno di una struttura di senso, all’interno di un piano. All’ombra di un più ampio progetto la vita acquisisce una propria organizzazione che, per un verso, tende a rimuovere la sorpresa. Crescere comporta rinunciare alle sorprese; insistere sulle sorprese significa restare giovani. Questa potrebbe essere una della ragioni per cui abbiamo dei figli.
Il prezzo che comporta cambiare le abitudini della propria vita è alto. Man mano che cresciamo sembriamo sempre un po’ più stanchi, mentre adattarsi a un nuovo mondo richiede sempre più energie. D’altra parte, vi sono risultati che possono essere ottenuti solo quando si è inseriti all’interno di un certo stile di vita. Il piacere di una vita domestica, per esempio, o le abilità derivanti dal praticare un lavoro artigianale con perfezione e maestria, verrebbero probabilmente sacrificati a causa dei troppi cambiamenti.
La plasticità neurale, propriamente intesa, ci insegna che il cervello da solo non può racchiudere l’intera storia riguardo al nostro sviluppo mentale. Come osserva Wexler, nessun altro animale è in grado di sviluppare le capacità linguistiche di un essere umano, neppure di un individuo in un i “centri del linguaggio” siano stati chirurgicamente rimossi dal sui cervello durante l’infanzia. Ne segue che la nostra capacità linguistica non è un prodotto di una particolare struttura neurale. Il linguaggio è una pratica culturale condivisa che può essere appresa solo da chi, in mezzo ad altri, si trova a vivere in uno speciale tipo di ecosistema culturale. Come ore mostrerò, la plasticità neurale può insegnarci molte cose sulla coscienza.
Plasticità neurale e coscienza
Qual’è il carattere dell’attività cerebrale che ci permette di avere un’esperienza visiva diversa in quanto tale da esperienze di altro tipo (per esempio olfattiva o uditiva) o dal non avere esperienza? Si tratta di una domanda che riguarda la coscienza, il peculiare carattere qualitativo delle nostre esperienze. Specificamente, essa investe le basi neurali del carattere qualitativo dei nostri episodi di coscienza. Che cosa possiamo dire riguardo al caratteristico crepitio neurale che fa sì che ogni esperienza abbia un certo tipo di qualità anziché un altro?
Gli scienziati non sono stati in grado di dare una risposta. Finora non sono stati capaci di colmare quello che è stato talvolta chiamato il “gap” o la “lacuna esplicativa” tra gli stati neurali e l’esperienza cosciente. Dal mio punto di vista, questo non è affatto sorprendente. La ragione per cui non possiamo spiegare il carattere qualitativo dell’esperienza facendo riferimento alla natura intrinseca dell’attività del nostro cervello consiste nel fatto che non vi è nulla nell’attività del cervello che sia propriamente visivo.
Vorrei spiegare meglio questo punto. Prendiamo alcuni sorprendenti e altamente istruttivi studi condotti sui furetti da Mriganka Sur e i suoi colleghi al MIT. Sur e colleghi hanno studiato furetti appena nati, collegando gli occhi a parti del cervello normalmente associate all’udito. Quello che essi hanno fatto è stato intervenire su ogni furetto in modo che le cellule degli occhi normalmente connesse alle aree visive (il talamo e la corteccia visiva) proiettassero nelle aree del cervello normalmente impiegate per l’udito. Essendo caratterizzati alla nascita da una spiccata immaturità cerebrale, i furetti si rivelano particolarmente adatti per questo tipo di intervento.
Potreste pensare che a causa di un simile ricablaggio i furetti sentano con gli occhi. Dopotutto, gli occhi sono stati collegati con le parti del cervello dedite all’ascolto. Ma è successo l’opposto, giacché l’intervento ha fatto sì che i furetti vedessero utilizzando il loro cervello acustico. Si tratta di un risultato sorprendente, Mostra come il legame fra le aree del cervello e l’esperienza cosciente (ovvero, il legame tra la corteccia uditiva e l’esperienza uditiva e quello tra la corteccia visiva e l’esperienza visiva) sia malleabile. Ciò che Sur e colleghi hanno fatto è stato provocare la rottura della normale correlazione tra l’attività neurale in una data area del cervello e l’esperienza visiva. Di solito l’attività neurale nella corteccia visiva dà luogo all’esperienza del vedere. Nel caso dei furetti di Sur, però, gli animali divengono capaci di vedere quando una porzione completamente diversa del cervello è attivata. Modificando le normali relazioni che sussistono tra gli occhi (o la retina) e il cervello, Sur e colleghi sono riusciti a ottenere una rimappatura delle esperienze e del cervello. (In realtà, essi avevano ricablato un solo emisfero, così che i furetti erano in grado di sentire in maniera perfetta usando la corteccia non ricablata.)
Il fatto che sia possibile variare in questo modo la coscienza in relazione ai supporti neurali ci dice che non vi è nulla di speciale nelle cellule della cosiddetta corteccia visiva che le renda appunto visive. Le cellule presenti nella corteccia uditiva possono essere a loro volta visive. Non vi è alcuna connessione necessaria tra il carattere dell’esperienza e il comportamento di certe cellule.
Questi risultati, a loro volta, indicano che se vogliamo comprendere perché certe cellule o certe aree del cervello siano coinvolte nella vista anziché nell’udito, o nell’udito anziché nella vista, dobbiamo andare al di là della mera attività dei nostri neuroni. Il carattere dell’esperienza cosciente può variare, anche se la sottostante attività neurale non subisce alcuna modifica. Questa è la lezione fondamentale di Sur e colleghi. Ne segue, allora, che non è l’attività neurale associata a determinare e a controllare il carattere dell’esperienza cosciente.
Colmare la lacuna
Possiamo iniziare a farci un’idea delle relazioni che sussistono tra la coscienza e il cervello guardando a quei casi in cui risulta alterata la normale correlazione tra l’attività neurale da una parte e l’esperienza di questo o quel carattere qualitativo dall’altra. Possiamo cioè usare la plasticità del cervello quale strumento attraverso cui cercare di capire perché l’attività neurale sia connessa con l’esperienza nei modi in cui lo è. Questa è la strategia che Susan Hurley e io abbiamo seguito insieme per anni, fino alla sua morte, nell’estate del 2007.
I furetti di Sur ci forniscono un esempio. Un caso diverso è invece rappresentato dal ben noto, ma non per questo meno singolare, fenomeno dell’arto fantasma. A volte, quando viene sfiorato sul volto, un soggetto che ha subito l’amputazione di un arto afferma di esperire una sensazione analoga a quella che avrebbe provato se a essere sfiorato fosse stato proprio il suo arto mancante, per esempio la mano. Perché? L’area della mano e quella del volto sono una vicino all’altra nella corteccia. Dopo l’amputazione, l’area della mano resta priva di stimolazioni, inattiva. Può darsi che la vicina area del volto invada la corteccia della mano o si sostituisca in qualche modo a essa. In virtù di questo intreccio, il tocco del volto produce ora due distinti effetti corticali. Primo, determina un’attivazione nella corteccia del volto corrispondente alla sensazione di essere sfiorato sul volto. Secondo, produce un’attivazione nella corteccia della mano corrispondente alla sensazione di essere toccato sulla mano ora mancante. Sfiorare un volto può produrre la sensazione di essere toccato sulla mano per la stessa ragione per cui è possibile accendere la luce premendo il pulsante del campanello se quest’ultimo è stato in precedenza collegato all’interruttore della luce. In questo caso, il tocco del volto determina quegli effetti neuronali che sarebbero presenti se a essere toccata fosse stata la mano.
Il contrasto tra i furetti di Sur e il caso dell’arto fantasma è evidente. I furetti di Sur non odono con gli occhi; essi vedono con il cervello uditivo: La corteccia uditiva cambia la sua funzione per la coscienza in conseguenza delle stimolazioni provenienti dagli occhi. Le cose vanno però diversamente nel caso delle “sensazioni riportate” dall’arto fantasma. Il paziente con l’arto fantasma, per quanto strano possa apparire, sente la sua mano tramite il suo volto (anziché sentire il volto nell’area corticale della mano). Perché? Perché il volto è ora collegato all’area corticale della mano. L’attivazione dell’area della mano continua a generare la sensazione di essere toccati sulla mano, anche se all’origine dell’attivazione vi è il tocco del volto e non della mano.
Perché un cambiamento nella sorgente della stimolazione di un’area corticale determina a volte un cambiamento nel carattere dell’esperienza risultante, come nel caso dei furetti di Sur, mentre altre volte ciò non avviene, come nel caso dell’arto fantasma?
Alla fine del libro faccio riferimento a un saggio nel quale Hurley e io abbiamo tentato di dare una risposta dettagliata a tale domanda. Una assai più breve, però, può essere già delineata ora. In un certo senso l’ho già data. Non è il carattere intrinseco degli stessi cambiamenti neurofisiologici a spiegare le conseguenze per la coscienza di questo tipo di ricablaggio; piuttosto, ciò che conta è il più ampio scenario o contesto in cui tali cambiamenti neurofisiologici avvengono.
La domanda ora è la seguente: qual’è questo più ampio contesto nei termini del quale possiamo sperare di comprendere gli effetti del ricablaggio neurale sull’esperienza cosciente? Più semplicemente, quali sono i fattori contestuali che regolano il carattere dell’esperienza e la sua relazione con l’attività neurale? Mostrerò che tale contesto deve trascendere i limiti del nostro cervello per includere le relazioni attive che un animale intrattiene con il proprio ambiente circostante.
Sostituzione sensoriale
Abbiamo appena visto che una ridefinizione delle connessioni neurali non è sufficiente a cambiare la qualità dell’esperienza associata. Il caso dell’arto fantasma ne è una prova. Ne segue che il ricablaggio neurale non è neppure necessario per determinare cambiamenti nella coscienza.
Alla fine degli anni Sessanta del Novecento, l’ingegnere e fisiologo Paul Bach-y-Rita sviluppò un congegno per permettere alle persone non vedenti di vedere. Continuò a lavorare su questo progetto fino alla sua morte, avvenuta due anni fa. Si noti che Bach-y-Rita, in realtà, ebbe successo. Per una serie di ragioni la sua invenzione è stata considerata impraticabile, ingombrante e non ancora pronta per un uso su larga scala. Da un punto di vista teorico, però, il suo lavoro ha conseguenze notevoli. Il suo punto di partenza era la credenza che gli occhi fossero un canale che convoglia l’informazione al sistema nervoso; pertanto, doveva essere possibile fornire al cervello la stessa informazione visiva anche attraverso un canale diverso. Bach-y-Rita escogitò un congegno in grado di fare ciò: collegò una fotocamera con un rilevatore di vibrazioni posto sulla coscia o sull’addome dei soggetti. Nel progetto di Bach-y-Rita la connessione tra i due apparati era pensata in modo tale che l’informazione visiva catturata dalla fotocamera fosse trasposta in un sistema di stimolazioni tattili sulla pelle del soggetto. Quello che trovò fu che, quando la fotocamera veniva montata sulla testa o sulle spalle di una persona, l’informazione visiva presentata dalla camera, che a sua volta produceva le sensazioni tattili sul corpo, permetteva alla persone di giudicare correttamente la grandezza, la forma e il numero di oggetti posti dall’altra parte della stanza. Grazie a tale sistema di sostituzione, l’individuo non vedente era in grado di raggiungere e afferrare gli oggetti, e persino di colpire accuratamente una palla con una racchetta da ping-pong. Tutto questo è stupefacente. Di fatto, i soggetti non vedenti che utilizzano un dispositivo di sostituzione visuotattile possono vedere! In qualche modo, anche solo dopo poche ore di utilizzo dell’apparecchio, una serie di sensazioni tattili concentrate sulla coscia o sullo stomaco può dar luogo a una modalità visiva.
Ora, vorrei sottolineare che la sostituzione visuotattile è un pieno e chiaro esempio del tipo di trasformazioni nella coscienza percettiva che abbiamo già visto nel caso dei furetti di Sur e colleghi. La stimolazione della pelle dà luogo a un’attività neurale nelle aree del cervello dedicate al tatto (la cosiddetta corteccia somatosensoriale). Ma nel caso di una persona che si è adattata a un sistema di sostituzione sensoriale, l’attivazione delle aree somatosensoriali dà luogo non a un’esperienza di tipo tattile (o almeno non alla sensazione di essere toccati), bensì all’esperienza visiva della scena che è di fronte. Le aree del cervello dedicate al tatto cambiano la loro funzione per la coscienza così come abbiamo visto avvenire con la corteccia uditiva nei furetti. Nel caso della sostituzione visuotattile, però, diversamente da quel che accade con i furetti di Sur, non possiamo sperare di spiegare perché la corteccia cambi la propria funzione per la coscienza supponendo che essa riceva gli stimoli in modo nuovo e sorprendente – per la semplice ragione che essa non riceve gli stimoli in modo nuovo o sorprendente. Le vibrazioni sulla pelle attivano la corteccia somatosensoriale nel solito modo di sempre. Né sembra plausibile che la corteccia somatosensoriale abbia subìto un qualche tipo di riorganizzazione neurofisiologica. Dopotutto, nei suoi esperimenti Bach-y-Rita era solito usare soggetti adulti e dunque dotati di una relativamente bassa plasticità neurale. Inoltre, egli ha trovato che le persone erano in grado di adattarsi alla sostituzione sensoriale non in settimane o giorni, ma in ore e minuti, ossia in un tempo insufficiente a dar luogo a un qualsiasi significativo ricablaggio delle connessioni neurali.
Il sistema di sostituzione sensoriale messo a punto da Bach-y-Rita rappresenta una forma di plasticità percettiva, senza per questo implicare alcuna plasticità a livello neurale. Quale migliore ragione si potrebbe addurre per convincerci del fatto che occorra guardare oltre il cervello se vogliamo farci un’idea di ciò che determina i drammatici cambiamenti nel carattere dell’esperienza di cui siamo testimoni? Ma da che parte dovremmo guardare? Che cosa spiega il cambiamento nel carattere qualitativo delle esperienze associate alla corteccia somatosensoriale, se, di fatto, non si assiste ad alcun ricablaggio né ad alcun altro cambiamento neurofisiologico?
Guardando oltre il cervello
Siamo talmente prigionieri dell’idea che la nostra esperienza sia governata dagli eventi neurali dentro di noi da non vedere la più naturale e ovvia spiegazione dei cambiamenti che si possono osservare nel caso della sostituzione visuotattile. Lo stesso Bach-y-Rita riteneva che lo scopo del suo sistema fosse quello di inviare l’informazione al cervello in modo nuovo. Ma, chiediamoci, che cosa davvero fa il sistema di sostituzione sensoriale di Bach-y-Rita? A livello più basilare, esso permette di instaurare una relazione tra l’individuo che percepisce e un oggetto che si trova sulla scena intorno a lui dove prima non ve n’era alcuna. Una volta che si è dotati del sistema, la stimolazione della nostra pelle è influenzata, in maniera nuova ma del tutto sistematica, dai cambiamenti nella nostra relazione spaziale con gli oggetti. In effetti, il sistema di sostituzione visuotattile è in grado di dar luogo a un nuovo modo di essere collegato all’ambiente.
Ecco la soluzione del problema. Ciò che determina il carattere della nostra esperienza – ovvero quel che rende la nostra esperienza proprio quel tipo di esperienza che è – non è l’attività neurale nel nostro cervello; piuttosto, è la relazione dinamica che intratteniamo con gli oggetti, una relazione che, come n questo caso, dipende chiaramente dalla selettività neurale ai cambiamenti nelle nostre relazioni con le cose. È qui, in questo coinvolgimento esteso, sensomotorio, con il mondo che troviamo le risorse per spiegare perché vediamo quando usiamo un sistema di sostituzione visuotattile. Più in dettaglio, la mi tesi è che siamo in grado di vedere attraverso l’utilizzo del sistema di Bach-y-Rita perché la relazione che esso instaura e conserva tra il soggetto percipiente e l’oggetto è, in un senso che può essere precisato meglio, dello stesso tipo di quella che abbiamo con le cose quando le vediamo. Qual’è la causa degli effetti per la nostra coscienza dell’attività neurale nell’area cerebrale dedicata al tatto? Risposta: il mondo e la relazione che intratteniamo con esso.
L’azione nella percezione
Gli approcci tradizionali alla visione sono da sempre incili a considerarla come qualcosa che accade dentro di noi. Un fenomeno riconducibile alla retina e alle strutture del cervello. Discuterò quest’idea e alcuni altri problemi ai quali essa dà luogo più avanti, nei capitoli sesto e settimo. Per ora desidero sottolineare ancora una volta quanto dovrebbe essere ormai ovvio, ossia che vedere è per molti versi un’attività corporea. Vedere implica muovere gli occhi, la testa ed il corpo. E, ancora più importante, i movimenti degli occhi, della testa e del corpo producono a loro volta cambiamenti nelle stimolazioni sensoriali che giungono agli occhi. In altre parole, come gli oggetti appaiono dipende, in maniera fine ed estremamente dettagliata, da quello che uno fa. Se ci avviciniamo a un oggetto, esso risalta nel nostro campo visivo. Se ce ne allontaniamo, esso progressivamente esce dalla nostra visuale. Adesso chiudiamo gli occhi: l’oggetto non c’è più. Camminiamogli intorno e vedremo il suo profilo cambiare. In questi e in molti altri modi emergono configurazioni di dipendenza tra la semplice stimolazione sensoriale da una parte e i nostri movimenti corporei dall’altra. Dovrebbe essere chiaro come il compito centrale di ogni organismo percipiente sia governare queste configurazioni dinamiche di stimolazione sensoriale e movimento.
Quanto detto suggerisce un modo nuovo di pensare la natura della percezione. Kevin O’Regan e io abbiamo sviluppato un approccio di questo tipo. Secondo l’approccio sensorimotorio, enattivo o azionista, il vedere non è qualcosa che accade a noi o nei nostri cervelli. È piuttosto qualcosa che facciamo. Si tratta di un’attiva esplorazione del mondo resa possibile dalla nostra familiarità con i modi in cui i nostri movimenti guidano e modulano il nostro incontro sensoriale con il mondo. Vedere è un tipo di attività che richiede abilità.
Ciò che rende la visione visiva è il fatto che essa è un’attività di esplorazione che si basa sulla comprensione dei modi familiari specifici in cui il movimento produce cambiamenti sensoriali, ossia dei modi che dipendono in maniera cruciale dagli occhi. Sbattere le palpebre, volgere lo sguardo o girare la testa, così come spostarsi rispetto agli oggetti circostanti, dà luogo eventi sensoriali basati in maniera caratteristica sugli occhi. Si noti che il mondo può manifestarsi alla coscienza visiva – gli oggetti possono mostrarsi con le loro proprie caratteristiche spaziali e visive – grazie al nostro continuo riconoscimento dei modi in cui le stimolazioni sensoriali visive relative agli occhi dipendono dai nostri movimenti.
Altre modalità sensoriali, come l’udito o il tatto, rappresentano altrettante modalità di esplorazione dell’ambiente, ma la maniera in cui il mondo si dà nell’esperienza uditiva o in quella tattile dipende da configurazioni di interdipendenza sensomotoria del tutto diverse. Si consideri il fatto che non esiste alcuna tattile semplice dell’essere quadrato. Per percepire l’essere quadrato di qualcosa tramite il tatto occorre che le interazioni sensoriali con quella cosa siano strutturate in maniera specifica – ossia che i movimenti siano ostacolati o guidati in modo preciso. Si noti che si può avere il senso dell’essere quadrato di una cosa anche se se ne tocca solo un angolo. L’essere quadrato dell’oggetto si rivela al tatto anche in questo caso poiché comprendiamo, nell’accezione pratica del termine, i tipi di movimenti che sarebbero permessi dai contorni dell’oggetto. Allo stesso modo, quando vedo una casa, sono in grado di avere il senso visivo dell’intero edificio, anche se, di fatto, tutto quello che posso percepire dalla posizione in cui mi trovo, non è che la facciata. Il resto della casa può essermi presente perché comprendo, in modo implicito e pratico, che la mia relazione con la casa è mediata da uno specifico repertorio di capacità esplorative.
In questa prospettiva, le modalità sensoriali sono veri e propri stili di esplorazione del mondo, che si differenziano l’uno dall’altro nello stesso modo in cui si differenziano gli stili dei musicisti – ossia, per la batteria di movimenti, attese e abilità che essi impiegano quando suonano il proprio strumento.
Di nuovo la sostituzione sensoriale
Possiamo ora comprendere che cosa nel sistema di sostituzione sensoriale di Bach-y-Rita lo renda visivo. Esso è tale poiché incarna una modalità di esplorazione del mondo basata sull’esercizio di quella che risulta essere una comprensione sensomotoria visiva. In altre parole, il modo in cui la stimolazione sensoriale dipende dal movimento nella sostituzione visuotattile è analogo al modo in cui essa dipende dal movimento durante la visione. Condividono lo stesso stile. Per esempio, proprio come accade nel caso della visione normale, nella sostituzione sensoriale visuotattile gli oggetti ci appaiono più grandi man mano che ci avviciniamo ad essi. E se ruotiamo il corpo, essi escono dalla nostra vista.
Si può essere d’accordo con quanto detto anche senza sostenere che la sostituzione visuotattile sia esattamente come la visione. La prospettiva orientata all’azione che ho precedentemente delineato può rispondere a siffatta obiezione. Anzi, la predice. Dopotutto, se la percezione dipende dalle nostre abilità sensomotorie, allora dipende anche dalla peculiare caratteristica del nostro corpo, poiché ciò che sappiamo fare è strettamente connesso con il modo in cui siamo fatti. Non c’è dubbio che esistano differenze importanti tra la sostituzione visuotattile e la visione normale, dovute alla diversa maniera in cui l’attività percettiva si incarna in queste due distinte forme di esplorazione del mondo. È solo facendo un passo indietro e caratterizzando il rapporto tra la sostituzione visuotattile e la visione normale in maniera più astratta che possiamo vedere come esse siano essenzialmente isomorfe nella loro struttura sensomotoria. Una cosa è chiara e degna di nota, quand’anche volessimo tenere il punto e insistere che non vi è nulla di visivo nella sostituzione visuotattile: essa non è nemmeno tattile. Non vi è cioè nulla di neppure lontanamente tattile in questo modo di percepire. Nel tatto scopriamo gli oggetti intorno a noi entrando in contatto con essi, ma la sostituzione visuotattile ci permette di dire dove si trovano le cose e a quale distanza, proprio come fa la vista.
Si potrebbe obiettare che, quando esploriamo il mondo con apparecchi di sostituzione sensoriale, quello che esperiamo sono solo vibrazioni sulla nostra pelle. Vi sono prove del fatto che, con un certo sforzo, è possibile concentrare la propria attenzione su tali sensazioni. Questo non significa, però, che una sostituzione di tipo visuotattile sia solo una specie di solletico sulla pelle. Da una parte occorre uno sforzo cosciente, ponderato per distogliere la propria attenzione dal mondo cui siamo interessati e dirigerla invece su questa sorta di solletico, così come occorre un certo sforzo per spostare la propria attenzione da ciò che stiamo guardando e dirigerla verso le stanghette degli occhiali che stiamo indossando. Comunque dia, il solletico non è che un effetto collaterale del funzionamento del sistema. Confondere la percezione di tali vibrazioni con la modalità dell’esperienza equivale a ritenere che vedere con gli occhiali da sole sia un realtà un’esperienza tattile, in quanto sarebbe possibile dirigere la propria attenzione alla sensazione causata dal contatto della fredda montatura metallica con la pelle. La sensazione della montatura, così come il solletico sulla coscia, rappresenta un effetto collaterale dell’attività percettiva, non un suo elemento costitutivo.
L’esito
Il punto centrale della teoria della percezione cosciente che ho presentato in questo capitolo consiste nell’affermare che non è il carattere intrinseco alla stimolazione sensoriale a determinare il carattere dell’esperienza; piuttosto, a svolgere un ruolo decisivo è il modo con cui la stimolazione sensoriale varia in funzione del movimento relativamente all’ambiente. Questo è, per la precisione, ciò che vediamo quando guardiamo alla sostituzione sensoriale visuotattile. Il carattere visivo (o quasi visivo) del sistema di sostituzione sensoriale non è determinato dalla natura dell’attività neurale nella corteccia somatosensoriale; piuttosto, è fissato dal modo in cui quell’attività varia in funzione del movimento. E la cosa decisiva è che il modo in cui quella attività varia in funzione del movimento è precisamente il modo della visione. Per essere la corteccia visiva – ovvero per rivestire il suo ruolo funzionale -, una regione corticale deve avere una posizione all’interno di uno specifico contesto sensomotorio.
In questa prospettiva, possiamo ora comprendere esattamente che cosa, nella connessione degli occhi del furetto alla corteccia uditiva, induca il cambiamento della funzione qualitativa della corteccia dell’animale. L’intervento chirurgico ha precisamente l’effetto di permettere lo stabilizzarsi di una struttura dinamica sensomotoria visiva: ciò che rende la corteccia uditiva corteccia visiva, per il furetto, è il fatto che essa si trova ora arruolata nella dinamica sensomotoria visiva. Viceversa, nel caso dell’arto fantasma, è a causa del mancato arruolamento della corteccia della mano all’interno di una nuova struttura che l’attività neurale di tale corteccia resta in sospeso. Il fenomeno dell’arto fantasma è la conseguenza della mancata integrazione dinamica dell’attività neurale della corteccia della mano.
Cervello e mondo
Ciò che spiega la plasticità della coscienza nel caso dei furetti – nonché in quello della sostituzione visuotattile – non è qualcosa che può essere compreso nei termini della relazione tra l’attività neurale a livello corticale e la periferia sensoriale del sistema nervoso (per esempio, la retina, la coclea o i recettori sulla pelle). Per comprendere quali siano le sorgenti della nostra esperienza occorre guardare a quei processi neurali nel contesto della relazione che un essere cosciente intrattiene con il mondo intorno a sé. Occorre inserire all’interno del nostro campo di indagine quelle relazioni dinamiche che oltrepassano la non poi così magica membrana che delimita la nostra testa. La coscienza del mondo intorno a noi è qualcosa che facciamo: la mettiamo in atti, con l’ausilio del mondo circostante, durante le attività dinamiche della nostra vita. Non è qualcosa che accade in noi.
Il fascino di questo modo di intendere il cervello e l’esperienza umana consiste nel fatto che esso ci permette di capire perché il cervello sia effettivamente necessario per l’esperienza umana, senza considerarlo dotato di poteri magici. Il cervello non genera la coscienza nel modo in cui una stufa genera calore. Sarebbe meglio paragonarlo a uno strumento musicale. Gli strumenti non fanno musica, non generano suoni da soli. Essi permettono alle persone di fare musica o di produrre suoni. L’idea di Crick, secondo la quale ciascuno di noi non sarebbe altro che il proprio cervello – o, in termini più semplici, l’idea che la coscienza sia un fenomeno del cervello, così come la digestione è un fenomeno dello stomaco -, somiglia all’immagine fantastica di un’orchestra che suona da sola.
Il cervello ha un lavoro da compiere; ho tentato di dimostrare che un accurato esame del modo in cui l’esperienza e l’attività del cervello dipendono l’una dall’altra rende plausibile l’ipotesi che il lavoro di quest’ultimo sia, in effetti, quello di coordinare i nostri rapporti con l’ambiente che ci circonda. È solo nel contesto dell’esistenza incorporata di un animale, del suo essere situato in un ambiente, della sua interazione dinamica con oggetti e situazioni che la funzione del cervello può essere compresa.
Questo è lo straordinario esito della nostra indagine. Da una parte, ciò significa che il mondo può essere descritto come qualcosa che appartiene all’effettivo macchinario della nostra propria coscienza. Questa non è poesia; è un’ipotesi ben supportata da prove empiriche. La coscienza percettiva, almeno, è una sorta di abile adattamento agli oggetti (e all’ambiente). Il vedere è un’abile interazione con gli oggetti che vediamo. Non potremmo vedere se non possedessimo un cervello, ma non lo potremmo fare neanche se gli oggetti non esistessero. Lo stesso vale per il corpo (ovvero, per il resto del corpo che non è il nostro cervello): il corpo fornisce la struttura e la forma alle varie relazioni che possiamo avere con il mondo intorno a noi; il mondo si mostra a noi grazie all’abilità del nostro corpo nel coordinare le nostre relazioni con esso. E certo anche il cervello è un elemento necessario di questa storia.
Conclusione: Il macchinario della mente è esteso
Abbiamo iniziato chiedendoci quali proprietà delle singole cellule possano spiegare il carattere qualitativo dell’esperienza umana. Terminiamo riconoscendo che, se guardiamo al cervello, stiamo cercando la coscienza nel posto sbagliato. Dobbiamo estendere la nostra concezione del macchinario della coscienza oltre il cervello, includendo anche la vita attiva che conduciamo nel mondo. Questo è quanto ci insegna la biologia della coscienza oggi. Nel prossimo capitolo comincerò a esplorare alcune delle implicazioni legate a questo nuovo modo di pensare il nostro essere cosciente.