Tutti gli scrittori di fantascienza si sentono chiedere, con magnifica regolarità: "Da dove nascono le sue idee?". Nessuno di noi sa mai bene cosa rispondere, a parte Harlan Ellison, che replica con un secco "Schenectady!".
La domanda è diventata una specie di barzelletta e perfino una vignetta del «New Yorker»; eppure, di solito è posta con sincerità, perfino con bramosia; di certo non vuole essere una domanda stupida. Il problema, il motivo per cui "Schenectady" è l'unica risposta possibile, è che non è la domanda giusta. E alle domande sbagliate non ci sono risposte giuste, come testimoniano le opere di coloro che tentavano di scoprire le proprietà del flogisto. A volte si tratta semplicemente di una formulazione imprecisa; questo è ciò che chi pone la domanda vuole davvero sapere: "La scienza nella sia fantascienza deriva dal leggere o conoscere la scienza?". (Risposta: sì.) Oppure: "Capita mai che gli scrittori di fantascienza si rubino le idee a vicenda?". (Risposta: continuamente.) Oppure ancora: "L'azione nei suoi libri deriva dal fatto che lei ha vissuto in prima persona tutte le esperienze dei suoi protagonisti?". (Risposta: Dio me ne scampi!) Ma a volte gli interroganti non riescono a essere specifici; divagano e passano ai be', tipo, insomma... e a quel punto sospetto che ciò a cui davvero mirino sia qualcosa di complesso, difficile e importante: cercano di capire l'immaginazione come funziona, come un artista la usi o ne sia usato. Sappiamo così poco sull'immaginazione che non riusciamo neppure a porre le domande giuste in proposito, figuriamoci dare le risposte giuste. Le sorgenti della creazione rimangono un mistero anche per la più saggia fra le psicologie, e spesso un artista è l'ultima persona in grado di dire alcunché di comprensibile sul processo della creazione. Benché nessun altro abbia mai detto molto, la cosa ha un suo senso. Credo che il miglior posto da cui cominciare sia proprio Schenectady, leggendo Keats.
In anni recenti, mi sento sempre rivolgere (si tratta solo di me, in questo caso) anche una seconda domanda. E cioè: "Perché scrive così tanto di uomini?".
Non è una domanda stupida, questa. E non è nemmeno una domanda sbagliata, per niente, benché a volte contenga un preconcetto che rende difficile dare una risposta diretta. Nei miei libri e nelle mie storie le donne ci sono, e spesso sono le protagoniste o incarnano il punto di vista principale; e così, quando qualcuno mi chiede "Perché scrive sempre di uomini?", rispondo "Non è vero", e lo dico con una certa stizza, perché la domanda così formulata è sia accusatoria che imprecisa. Posso mandar giù piccole dosi di accusa o imprecisione, ma la combinazione mi riesce letale.
Ma, di nuovo, a prescindere dalla sua formulazione, ciò che questa domanda porta con sé è una preoccupazione concreta e pressante. Una risposta leggera è odiosa, una breve, impossibile.
Il pianeta dell'esilio è stato scritto tra il 1963 e il 1964, prima che il femminismo si risvegliasse dalla sua paralisi trentennale. Il libro mostra il modo in cui, ai primi tempi, gestivo i personaggi maschili e femminili - un modo "naturale" (cioè felicemente integrato), ancora lontano dal risveglio e abituato all'inconsapevolezza in cui ero stata cresciuta. A quei tempi, potevo dire in perfetta buona fede, e di sicuro anche con compiacimento, che semplicemente non mi interessava che i miei personaggi fossero maschi o femmine, l'importante era che fossero umani. Perché diamine una donna dovrebbe scrivere solo di donne? Non avevo autoconsapevolezza e non mi sentivo obbligata in alcun modo, quindi ero sicura di me, poco portata agli esperimenti e soddisfatta nella mia convenzionalità.
La storia comincia con Rolery, ma presto il punto di vista passa a Jakob e poi a Wold, quindi torna a Rolery e poi cambia di nuovo: è una storia a focalizzazione interna multipla. Gli uomini sono più apertamente attivi e molto più eloquenti. Rolery, una giovane donna inesperta che proviene da una cultura rigidamente tradizionale e patriarcale, non combatte, non prende l'iniziativa in campo sessuale, né diviene leader sociale o assume qualunque altro ruolo che possa essere etichettato come "maschile", nella sua cultura come nella nostra del 1964. Ciononostante, Rolery è una ribelle, tanto dal punto di vista sociale quanto da quello sessuale. Benché il suo comportamento non sia aggressivo, il suo desiderio di libertà la conduce a rompere bruscamente con il proprio sostrato culturale: unendosi a un essere alieno, si sottopone a una trasformazione integrale. Sceglie l'Altro. Questa piccola ribellione individuale, che giunge in un momento cruciale, innesca una serie di eventi che porteranno al completo cambiamento e alla riedificazione di due culture e società.
Jakob è l'eroe, attivo, eloquente, tutto preso tra combattere con valore e governare con zelo, ma il motore centrale degli eventi del libro, chi sceglie, all'atto pratico è Rolery. Ho incontrato il taoismo prima del femminismo moderno. Dove alcuni vedono solo un Eroe dominante e una Piccola Donna passiva, io vedevo, e vedo tuttora, lo spreco e la futilità connaturate all'aggressività, e la profonda efficacia del wu wei, "agire tramite il non agire".
Tutto giusto; ma resta il fatto che, in questo libro, come nella maggior parte degli altri miei romanzi, è agli uomini che spetta il grosso dell'azione, in tutti i sensi del termine, e di conseguenza sono loro a essere più spesso sotto i riflettori. "Non mi interessava" che il mio protagonista fosse maschio o femmina: dalla spensieratezza alla noncuranza il passo è colpevolmente breve. Gli uomini prendono il sopravvento.
Perché glielo permettiamo? Be', è sempre stato tanto più facile parlare di uomini che fanno cose, dal momento che la stragrande maggioranza dei libri che parlano di gente che fa cose parla appunto di uomini, ed è la nostra tradizione letteraria... e perché, da donna, è probabile che non si abbia poi tutta questa esperienza in fatto di combattere, stuprare, governare eccetera, ma si è notato che sono gli uomini a occuparsene... e perché, come ha osservato Virginia Woolf, la prosa inglese non è adatta a descrivere l'essere e l'agire femminile, a meno che in certa misura non la si reinventi da zero. È difficile prendere le distanze dalla tradizione, è difficile inventare, è difficile reinventare la propria lingua madre. Si svicola e si sceglie la strada più semplice. Nulla può spingerci ad andare controcorrente, a scegliere la strada più difficile, se non una coscienza profondamente scossa, e con ogni probabilità arrabbiata.
Ma la coscienza deve essere arrabbiata. Se si sforza di arrivare alla rabbia con la ragione, produce solo senso di colpa, che soffoca le sorgenti della creazione ai primi zampilli.
Sono spesso molto arrabbiata, in quanto donna. Ma la mia rabbia femminista è solo una componente, una parte della furia e della paura che mi assalgono quando guardo a ciò che tutti ci stiamo facendo l'un l'altro, alla terra, e alla speranza di libertà e di vita. Ancora oggi "non mi interessa" che qualcuno sia maschio o femmina, quando tutti sono nostri simili e nostri figli. Davanti a un innocente imprigionato ingiustamente, dovrei preoccuparmi del suo sesso? Davanti a un bambino che muore di fame, dovrei preoccuparmi del suo sesso?
Certe femministe radicali rispondono che sì, dovrei. Partendo dal presupposto che l'ingiustizia sessuale sia alla base di ogni ingiustizia, sfruttamento e sopraffazione cieca, è una posizione solida. Io non posso accettare il presupposto, e dunque non posso agire su queste basi. Se mi sforzassi di farlo, dal momento che io agisco tramite la scrittura, scriverei male e in modo disonesto. Dovrei forse sacrificare l'ideale di verità e bellezza a vantaggio di un principio ideologico?
Di nuovo, una femminista radicale potrebbe rispondere che sì, dovrei. Benché a volte quella risposta coincida con la voce del Censore, mossa puramente dall'oscurantismo fanatico o autoritario, non sempre è così: potrebbe parlare in nome dell'ideale stesso. Per costruire il nuovo, è necessario fare tabula rasa del vecchio. La generazione cui tocca fare tabula rasa si ritrova sulle spalle tutto il dolore della distruzione e ben poco della gioia della creazione. Il coraggio di accettare questo compito insieme all'ingratitudine e all'infamia che lo accompagnano non sarà mai lodato abbastanza.
Ma questo coraggio non può essere imposto o simulato. Nel primo caso, porta solo al rancore e all'autodistruttività, nel secondo porta al Feminist Chic, discendente diretto del Radical Chic. Un conto è sacrificare l'appagamento al servizio di un ideale; un altro è soffocare il pensiero lucido e il sentire autentico al servizio di un'ideologia. Un'ideologia è preziosa solo nella misura in cui vi si ricorre per rafforzare la lucidità e l'autenticità del pensiero e del sentire.
E da questo punto di vista, l'ideologia femminista è stata immensamente preziosa per me. Ha costretto me e ogni altra donna pensante di questa generazione a conoscere meglio noi stesse: a distinguere, spesso con grande dolore, ciò che davvero pensiamo e crediamo delle facili "verità" e dai "fatti" che ci sono stati (subliminalmente) insegnati circa l'essere maschi, l'essere femmine, i ruoli sessuali, la fisiologia e la psicologia femminili, ;a responsabilità sessuale eccetera. Fin troppo spesso ci siamo accorte che non avevamo alcuna opzione o convinzione davvero nostra, ma che avevamo introiettato i dogmi della nostra società; e così, ecco giunto il momento di scoprire, inventare, creare le nostre verità, i nostri valori, noi stesse.
Questa riedificazione del sé femminile è una liberazione e un sollievo per coloro che vogliono e necessitano di un sostegno di gruppo, o il cui essere donne è stato sistematicamente offeso, degradato, sfruttato durante l'infanzia, il matrimonio, sul lavoro. Per altre come me, per le quali il gruppo di pari non rappresenta una casa e che non sono state alienate dal loro essere donne, questo lavoro d'indagine di sé non è facile. "Mi piacciono le donne, mi piace come sono io, perché agitare le acque?", "Non mi interessa se sono uomini o donne...", "Perché diamine una donna dovrebbe scrivere solo di donne?". Sono tutte domande valide; nessuna ha una risposta facile; ma tutte devono, adesso, essere poste e trovare risposta. Un'attivista politica può basare le proprie risposte sull'ideologia del suo movimento nel dato frangente, ma un'artista deve trovarle scavando in se stessa, e continuare a scavare finché non è sicura di essere arrivata il più vicino possibile alla verità.
Io continuo a scavare. Uso gli strumenti del femminismo, e cerco di capire cosa mi fa lavorare e come lavoro, così da non lavorare più nell'ignoranza o nell'irresponsabilità. Non è né rapido, né indolore; si avanza a tentoni nel buio del corpo e della mente - un viaggio molto lungo da Schenectady. Quanto poco sappiamo davvero di noi stessi, donne o uomini!
Ecco, una delle cose che credo di aver recuperato dai miei scavi è questa: la "persona" di cui tendo a scrivere spesso non è esattamente o non è totalmente né un uomo né una donna. A livello superficiale, ciò significa che gli stereotipi sessuali sono in gran parte neutralizzati (gli uomini non sono predatori libidinosi e le donne non sono straordinarie bellezze), e il sesso in sé è visto più come una relazione che conta come atto. Il sesso serve principalmente a definire il genere, e l'etichetta "uomo" o "donna" non esaurisce il genere dell'individuo, né vi si avvicina a sufficienza. Di certo, tanto il sesso quanto il genere sembrano utilizzati per definire il significato di "persona" o di "sé". Una volta, agli inizi del mio risveglio, ho chiuso questa relazione in una persona unica, un androgino. Ma più spesso essa appare nella sua veste più convenzionale e manifesta - una coppia. Entrambi in uno, o due a formare un intero. Non c'è yin senza yang, né yang senza yin. Mi è stato chiesto una volta quale fosse, a mio parere, il tema costante, centrale del mio lavoro, e ho risposto d'impulso: "Il matrimonio".
Non ho ancora scritto un libro degno di quel tema formidabile (e incredibilmente fuori moda). Ancora non ho neppure capito cosa intendessi con quella risposta. Ma rileggendo questa tranquilla storia d'avventura dei miei inizi, credo che il tema ci sia - non chiaro, non forte, ma le tracce si incamminano in quella direzione. "E andato che capisco dove devo andare."
Ursula K. Le Guin, maggio 1977