Che cosa si prova a essere un pipistrello?

Proseguo con la trascrizione di alcuni testi sul tema della filosofia della mente. Il seguente è un classico, scritto da Thomas Nagel.

Un altro testo molto influente è L'esperimento della Stanza cinese di John Searle. Si possono trovare entrambi pubblicati in italiano sulla raccolta L'io della mente, da Adelphi. Ottimo libro, che consiglio come introduzione alla filosofia della mente.

Il seguente articolo analizza il rapporto fra mente e cervello, toccando il classico tema della soggettività e della difficoltà a comprendere le altre menti, specialmente se completamente aliene alla nostra. Tema affrontato anche in due dei romanzi qua recensiti: Solaris di [Stanislaw Lem][6 e Picnic sul ciglio della strada di [Akardi e Boris Strugatzki]7. A seguito, le riflessioni di Douglad Hofstadter.

Che cosa si prova a essere un pipistrello?

di Thomas Nagel

La coscienza è ciò che rende veramente ostico il problema del rapporto fra la mente e il corpo. Forse è per questo che quando oggi si discute di questo problema si presta scarsa attenzione alla coscienza o la si affronta in modo palesemente sbagliato. La recente ondata di euforia riduzionista ha dato luogo a parecchie analisi dei fenomeni mentali e dei concetti della mente, mirati a spiegare la possibilità di certe forme di materialismo, di identificazione psicofisica o di riduzione. Ma i problemi affrontati sono quelli comuni a questo e ad altri tipi di riduzione, mentre viene ignorato ciò che rende il problema mente-corpo unico e diverso dal problema acqua–H2O, o dal problema macchina di Turing–macchina IBM, o dal problema fulmine–scarica elettrica, o dal problema gene–DNA, o dal problema quercia–idrocarburo.

Ciascun riduzionista ha la sua analogia preferita nella scienza moderna. È assai improbabile che qualcuno di questi esempi incorrelati di riduzione ben riuscita possa far luce sul rapporto fra mente e cervello. Ma i filosofi, come gli altri uomini, hanno la debolezza di voler spiegare ciò che è incomprensibile in termini che vanno bene per ciò che è familiare e ben compreso, benché totalmente diverso. Ciò ha portato ad accettare descrizioni nient’affatto plausibili del mentale, sostanzialmente perché esse consentono riduzioni di genere consueto. Cercherò di spiegare perché gli esempi adotti comunemente non ci aiutano a capire il rapporto tra mente e corpo; perché, anzi, a tutt’oggi non abbiamo la minima idea di come potrebbe essere una spiegazione della natura fisica di un fenomeno mentale. Senza la coscienza il problema mente–corpo sarebbe molto meno interessante; con la coscienza esso appare senza speranza di soluzione. L’aspetto più importante e caratteristico dei fenomeni mentali coscienti è pochissimo compreso; le teorie riduzioniste per lo più non cercano nemmeno di spiegarlo e un esame accurato dimostrerà che nessuno dei concetti di riduzione attualmente disponibili è applicabile ad esso. Forse a questo scopo si può escogitare una nuova forma teorica di riduzione, ma questa soluzione, se esiste, si trova in un futuro intellettuale ancora lontano.

L’esperienza cosciente è un fenomeno ampiamente diffuso: è presente a molti livelli della vita animale, anche se non possiamo essere certi della sua presenza negli organismi più semplici ed è molto difficile in generale dire che cosa ne dimostri l’esistenza. (Alcuni estremisti sono giunti a negarla perfino nei mammiferi diversi dall’uomo). Essa si manifesta certo in innumerevoli forme, per noi del tutto inimmaginabili, su altri pianeti di altri sistemi solari nell’universo. Ma comunque possa variarne la forma, il fatto che un organismo abbia un’esperienza cosciente significa, fondamentalmente, che a essere quell’organismo si prova qualcosa. Vi possono essere altre implicazioni riguardanti la forma dell’esperienza; vi possono forse anche essere (benché io ne dubiti) implicazioni riguardanti il comportamento dell’organismo; ma fondamentalmente un organismo possiede stati mentali coscienti se e solo se si prova qualcosa a essere quell’organismo: se l’organismo prova qualcosa a essere quello che è.

Possiamo parlare a questo proposito di carattere soggettivo dell’esperienza. Nessuna delle analisi riduttive del mentale recenti e più conosciute ne dà conto, perché esse sono tutte logicamente compatibili con la sua assenza. Il carattere soggettivo dell’esperienza non è analizzabile nei termini di alcun sistema esplicativo di stati funzionali o di stati intenzionali, poiché questi stati potrebbero essere attribuiti a robot o ad automi che si comportassero come persone anche senza avere alcuna esperienza soggettiva.(1) Esso non è analizzabile in termini del ruolo causale dell’esperienza soggettiva in relazione al comportamento umano tipico, e ciò per ragioni analoghe.(2) Non nego che gli stati e gli eventi mentali coscienti causino il comportamento o che di essi si possa dare una caratterizzazione funzionale; nego soltanto che non l’aver stabilito una cosa del genere la loro analisi debba considerarsi conclusa. Qualsiasi programma riduzionista deve essere basato su un’analisi di ciò che si deve ridurre. Se l’analisi lascia fuori qualcosa, il problema è posto in modo falso. È inutile basare la difesa del materialismo su un’analisi dei fenomeni mentali che non tenga conto esplicitamente del loro carattere soggettivo, poiché non vi è alcuna ragione per supporre che una riduzione che paia plausibile quando non si faccia alcun tentativo per spiegare la coscienza possa essere estesa fino ad includere la coscienza. Pertanto, se non si possiede alcuna idea di che cosa sia il carattere soggettivo dell’esperienza, non si può sapere che cosa si debba richiedere a una teoria fisicalista.

Benché una descrizione delle basi fisiche della mente debba spiegare molte cose, questa sembra essere la più difficile. È impossibile escludere da una riduzione gli aspetti fenomenologici dell’esperienza allo stesso modo in cui si escludono gli aspetti fenomenologici di una sostanza ordinaria da una sua riduzione fisica o chimica, cioè spiegandoli come effetti sulla mente degli osservatori umani (cfr. Rorty, 1965). Se vogliano difendere il fisicalismo, dobbiamo trovare una spiegazione fisica anche per gli aspetti fenomenologici. Tuttavia, quando si esamina il loro carattere soggettivo sembra che sia impossibile riuscirci. La ragione è che ogni fenomeno soggettivo è sostanzialmente legato a un singolo punto di vista e pare inevitabile che una teoria oggettiva e fisica debba abbandonare quel punto di vista.

Voglio prima di tutto cercare di enunciare il problema in modo alquanto più preciso e completo di quanto si possa fare riferendosi semplicemente al rapporto fra il soggettivo e l’oggettivo, o fra il pour soi e l’en soi. Ciò non è affatto facile. I fatti relativi a ciò che si prova a essere un dato X sono molto peculiari, tanto peculiari che alcuni possono essere inclini a dubitare della loro realtà o a chiedersi se abbia senso sostenere qualche tesi su di essi. Per illustrare il legame tra la soggettività e un particolare punto di vista e per mettere in luce l’importanza degli aspetti soggettivi, sarà utile indagare sulla questione riferendoci a un esempio che mette chiaramente in risalto la divergenza tra i due tipi di concezione, quella soggettiva e quella oggettiva.

Do per scontato che tutti siamo convinti che i pipistrelli abbiano esperienze soggettive: in fin dei conti sono mammiferi, e il fatto che abbiano esperienze soggettive non è più dubbio del fatto che le abbiano i topi, i piccioni o le balene. Ho scelto i pipistrelli anziché le vespe o le sogliole perché via via che si scende lungo l’albero filogenetico si è sempre meno disposti a credere che siano possibili esperienze soggettive. Benché siano più affini a noi che alle altre specie sopra ricordate, i pipistrelli presentano tuttavia una gamma di attività e organi di senso così diversi dai nostri che il problema che voglio impostare ne risulta illuminato vividamente (per quanto naturalmente lo si possa porre anche per le altre specie). Anche senza il beneficio della riflessione filosofica, chiunque sia stato per qualche tempo in uno spazio chiuso in compagnia di un pipistrello innervosito sa che cosa voglia dire imbattersi in una forma di vita fondamentalmente aliena.

Ho detto che la convinzione che i pipistrelli abbiano un’esperienza soggettiva consiste essenzialmente nel credere che a essere un pipistrello si prova qualcosa. Ora, noi sappiamo che la maggior parte dei pipistrelli (i microchirotteri, per la precisione) percepisce il mondo esterno principalmente mediante il sonar, o ecorilevamento: essi percepiscono le riflessione delle proprie strida rapide, finemente modulate e ad alta frequenza (ultrasuoni) rimandate dagli oggetti situati entro un certo raggio. Il loro cervello è strutturato in modo da correlare gli impulsi uscenti con gli echi che ne risultano, e l’informazione così acquisita permette loro di valutare le distanze, le dimensioni, le forme, i movimenti e le strutture con la precisione paragonabile a quella che noi raggiungiamo con la vista. Ma il sonar del pipistrello, benché sia evidentemente una forma di percezione, non assomiglia nel modo di funzionare a nessuno dei nostri sensi e non vi è alcun motivo per supporre che esso sia oggettivamente simile a qualcosa che noi possiamo sperimentare o immaginare. Ciò, a quanto pare, rende difficile capire che cosa si provi a essere un pipistrello. Dobbiamo vedere se esiste qualche metodo che ci permetta di estrapolare la vita interiore del pipistrello a partire dalla nostra situazione(3) e, in caso contrario, quali metodi alternativi vi siano per raggiungere il nostro scopo.

È la nostra esperienza che fornisce il materiale di base alla nostra immaginazione, la quale è perciò limitata. Non serve cercare di immaginare di avere sulla braccia un’ampia membrana che ci consente di svolazzare qua e là all’alba e al tramonto per acchiappare insetti con la bocca; di avere una vista molto debole e di percepire il mondo circostante mediante un sistema di segnali sonori ad alta frequenza riflessi dalle cose; e di passare la giornata appesi per i piedi, a testa in giù, in una soffitta. Se anche riesco a immaginarmi tutto ciò (e non mi è molto facile), ne ricavo solo che cosa proverei io a comportarmi come un pipistrello. Ma non è questo il problema: io voglio sapere che cosa prova un pipistrello a essere un pipistrello. Ma se cerco di figurarmelo, mi trovo ingabbiato entro le risorse della mia mente, e queste risorse non sono all’altezza dell’impresa. Non riesco a uscire né immaginando di aggiungere qualcosa alla mia esperienza attuale, né immaginando di sottrarle via via dei segmenti, né immaginando di compiere una qualche combinazione di aggiunte, sottrazioni e modifiche.

Anche se mi fosse possibile avere l’aspetto e il comportamento di una vespa o di un pipistrello, senza però mutare la mia struttura fondamentale, anche in questo caso le mie esperienze non sarebbero affatto simili alle esperienze di questi animali. D’altra parte, non ha probabilmente senso supporre che io possa arrivare a possedere la costituzione neurofisiologica interna di un pipistrello. Anche se potessi trasformarmi gradualmente in un pipistrello, nulla della mia costituzione attuale mi consente di immaginare quali sarebbero le esperienze di questo mio stato futuro dopo la metamorfosi. Le indicazioni migliori verrebbero dalle esperienze dei pipistrelli, se solo sapessimo come sono.

Se quindi per farsi un’idea di che cosa si provi a essere un pipistrello ci si basa su un’estrapolazione della nostra situazione, questa estrapolazione è destinata a restare incompleta. Possiamo costruirci tuttalpiù una concezione schematica di che cosa si prova; per esempio, possiamo ascrivere tipi generali di esperienza soggettiva sulla base della struttura e del comportamento animale.

Descriviamo così il sonar dei pipistrelli come una forma di percezione tridimensionale in avanti; crediamo che i pipistrelli sentano una qualche forma di dolore, paura, fame e concupiscenza e che, oltre al sonar, posseggano altri tipi di percezione a noi più familiari. Tuttavia siamo anche convinti che queste esperienze hanno in ciascun caso un carattere soggettivo specifico e che concepirlo supera le nostre capacità. E se altrove nell’universo esiste vita cosciente, è probabile che in certi casi essa non sia descrivibile neppure nei più generali termini esperenziali a nostra disposizione.(4) (Il problema, tuttavia, non è limitato ai casi estremi: esso esiste anche fra una persona e l’altra: il carattere soggettivo dell’esperienza di una persona sorda e cieca dalla nascita, per esempio, non mi è accessibile, così come presumibilmente a lei non è accessibile il carattere soggettivo della mia esperienza. Questo non impedisce a ciascuno di noi di credere che l’esperienza dell’altro possegga questo carattere soggettivo).

Chi fosse incline a negare che si possa credere nell’esistenza di fatto come questo, la cui natura esatta non abbiamo modo di concepire, rifletta che nell’osservare i pipistrelli noi ci troviamo in una posizione quasi identica a quella in cui si troverebbero un pipistrello intelligente o un marziano(5) che tentassero di farsi un’idea di che cosa si provi a essere noi. La struttura della loro mente potrebbe impedir loro di riuscirci, ma noi sappiamo che avrebbero torto a concludere che non si prova nulla di preciso ad essere noi, che a noi possono essere ascritti solo certi tipi generali di stati mentali (forse la percezione e l’appetito sarebbero concetti comuni a noi e a loro; o forse no). Sappiamo che avrebbero torto a trarre una conclusione così scettica, perché noi sappiamo che cosa si prova a essere noi. E sappiamo che, per quanto ciò comprenda una varietà e una complessità grandissime e per quanto noi non possediamo la terminologia capace di darne una descrizione sufficiente, il suo carattere soggettivo è altamente specifico e, sotto certi aspetti, è descrivibile in termini che possono essere capiti solo da creature come noi. Il fatto che non possiamo sperare di riuscire mai a fornire col nostro linguaggio una descrizione particolareggiata della fenomenologia dei marziani o dei pipistrelli non dovrebbe indurci a considerare priva di sensi l’ipotesi che i pipistrelli e i marziani abbiano esperienze affatto paragonabili alle nostre per ricchezza di particolari. Sarebbe bello se qualcuno riuscisse a elaborare un insieme di concetti e una teoria che ci consentissero di riflettere su queste cose; ma i limiti della nostra natura ci impediscono, forse per sempre, una tale comprensione. E negare la realtà o la portata logica di ciò che non potremmo mai descrivere o comprendere è la forma più rozza di dissonanza cognitiva.

Questo ci porta a sfiorare un argomento che richiede una discussione molto più ampia di quella che mi è consentita qui: cioè il rapporto tra i fatti da una parte e gli schemi concettuali o i sistemi di rappresentazione dall’altra. La mia posizione realistica nei confronti del dominio della soggettività in tutte le sue forme implica che io credo nell’esistenza di fatti che travalicano la portata dei concetti umani. È certamente possibile per un essere umano credere che vi siano dei fatti per rappresentare o comprendere i quali gli uomini non possederanno mai i concetti necessari. Sarebbe anzi assurdo dubitarne, vista la finitezza delle aspettazioni umane. In fin dei conti, i numeri transfiniti sarebbero esistiti lo stesso anche se tutti gli uomini fossero stati tolti di mezzo dalla peste bubbonica prima della scoperta di Cantor. Ma si può anche credere che vi siano dei fatti che non potrebbero mai essere rappresentati o compresi dagli esseri umani, anche se la nostra specie durasse per sempre, semplicemente perché la nostra struttura non ci permette di operare con i concetti del tipo necessario. Questa impossibilità potrebbe essere addirittura osservata da altri esseri, ma non è detto che l’esistenza di tali esseri, o la possibilità della loro esistenza, sia una condizione affinché l’ipotesi che vi siano fatti inaccessibili agli uomini abbia senso. (Dopotutto, la natura di esseri aventi accesso a fatti inaccessibili agli uomini è presumibilmente anch’essa un fatto inaccessibile agli uomini). Riflettendo su ciò che si prova a essere un pipistrello si arriva dunque, a quanto pare, alla conclusione che esistono fatti che non consistono nella verità di preposizioni esprimibili con linguaggio umano. Possiamo essere costretti a riconoscere l’esistenza di tali fatti senza essere in grado di enunciarli o di comprenderli.

Tuttavia interromperò qui la discussione di questo argomento. La sua rilevanza per il problema che ci sta di fronte (cioè per il problema mente-corpo) sta nel fatto che esso ci consente di fare un’osservazione generale sul carattere soggettivo dell’esperienza. Qualunque sia la natura dei fatti relativi a ciò che si prova a essere un uomo o un pipistrello o un marziano, questi fatti esprimono, a quanto pare, uno specifico punto di vista.

Non mi riferisco qui alla supposta privatezza dell’esperienza per chi la compie; il punto di vista in questione non è un punto di vista accessibile a un unico individuo: è piuttosto un tipo. È spesso possibile assumere un punto di vista diverso dal proprio, sicché la comprensione di tali fatti non è limitata al proprio caso particolare. Vi è un senso in cui i fatti fenomenologici sono perfettamente oggettivi: una persona può sapere o dire quale sia la qualità dell’esperienza di un’altra persona. Essi sono soggettivi, tuttavia, nel senso che anche questa ascrizione oggettiva dell’esperienza è possibile solo a qualcuno che sia abbastanza simile all’oggetto dell’ascrizione da essere in grado di adottare il suo punto di vista, cioè di comprendere l’ascrizione in prima persona, per così dire, oltre che in terza persona. Quanto più l’altro, il soggetto dell’esperienza, è diverso da noi, tanto più difficile sarà, presumibilmente, riuscire in questa impresa. Nel caso di noi stessi, noi occupiamo il punto di vista in questione, ma se ci accostassimo alla nostra esperienza da un altro punto di vista, incontreremmo, per comprenderla nel modo giusto, la stessa difficoltà che incontreremmo se tentassimo di comprendere l’esperienza di un’altra specie senza adottare il suo punto di vista.(6) Ciò tocca direttamente il problema mente-corpo, poiché se i fatti dell’esperienza soggettiva – i fatti riguardanti il provare ciò che prova l’organismo che ha l’esperienza – sono accessibili da un unico punto di vista, allora è un mistero come il vero carattere fisico delle esperienze soggettive può essere rivelato nel funzionamento fisico di quell’organismo. Quest’ultimo è un campo di fatti oggettivi per eccellenza, fatti che possono essere osservati e capiti da molti punti di vista e da individui dotati di sistemi di percezione differenti. Non esistono barriere immaginative analoghe che si oppongano all’acquisizione di conoscenze sulla neurofisiologia dei pipistrelli da parte di scienziati umani, e viceversa pipistrelli o marziani intelligenti potrebbero imparare sul cervello umano più di quanto potremo mai imparare noi.

Questo non è di per se stesso un argomento contro la riduzione. Uno scienziato marziano che non capisce la percezione visiva, potrebbe capire l’arcobaleno o il fulmine o le nubi come fenomeni fisici, anche se non sarebbe mai in grado di capire i concetti umani dell’arcobaleno, del fulmine o della nube, o il posto che queste cose occupano nel nostro mondo fenomenico. La natura oggettiva delle cose espresse da questi concetti potrebbe essere da lui colta perché, mentre i concetti sono legati a un punto di vista particolare e a una particolare fenomenologia visiva, le cose colte da quel punto di vista non lo sono: esse sono osservabili da quel punto di vista, ma sono esterne a esso; possono quindi essere capite anche da punti di vista diversi, sia da parte degli stessi organismi sia da parte di altri. Il fulmine ha un carattere oggettivo che non si esaurisce nella sua manifestazione visiva, e può essere studiato da un marziano privo della vista. Per essere precisi: esso ha un carattere più oggettivo di quanto non si riveli nella sua manifestazione visiva. Parlando del passaggio dalla caratterizzazione soggettiva a quella oggettiva, desidero non pronunciarmi sull’esistenza o meno di un punto terminale, di una natura intrinseca compiutamente oggettiva della cosa, raggiungibile o no. Forse è più corretto concepire l’oggettività come una direzione in cui può viaggiare il comprendere. E per comprendere un fenomeno come il fulmine è legittimo allontanarsi quanto più possibile da un punto di vista strettamente umano.(7)

Nel caso dell’esperienza soggettiva, viceversa, il legame con un punto di vista particolare sembra molto più stretto. È difficile capire che cosa si potrebbe intendere per carattere oggettivo di un’esperienza soggettiva, a parte il modo in cui la coglie, dal suo particolare punto di vista, il soggetto che la coglie. Dopotutto, che cosa resterebbe di ciò che si prova ad essere un pipistrello se si eliminasse il punto di vista del pipistrello? Ma se l’esperienza soggettiva non ha, in aggiunta al proprio carattere soggettivo, una natura oggettiva che possa essere colta da molti punti di vista diversi, come si può supporre che un marziano investighi il mio cervello possa osservare dei processi fisici che sono i miei processi mentali (così come potrebbe osservare dei processi fisici che sono i fulmini), ma da un punto di vista diverso? E come, anzi, potrebbe osservarli da un altro punto di vista un fisiologo umano?(8)

A quanto pare ci troviamo di fronte a una difficoltà di carattere generale a proposito della riduzione psicofisica. In altri campi il processo di riduzione porta nella direzione di una maggiore oggettività, porta verso una visione più precisa della reale natura delle cose. Ciò viene ottenuto mediante la riduzione della nostra dipendenza da punti di vista specifici dell’individuo o della specie nei confronti dell’oggetto d’indagine: noi lo descriviamo non nei termini delle impressioni che esso procura ai nostri sensi, bensì nei termini dei suoi effetti più generali e a proprietà rilevabili con mezzi diversi dai sensi dell’uomo. Quanto meno la nostra descrizione dipende da un punto di vista specificamente umano, tanto più essa è oggettiva.

È possibile seguire questa via poiché, sebbene i concetti e le idee da noi impiegati nel riflettere sul mondo esterno provengano all’inizio da un punto di vista che coinvolge il nostro apparato percettivo, essi vengono da noi usati per riferirci a cose che stanno al di là di essi e nei confronti delle quali noi possediamo un punto di vista fenomenico. Possiamo perciò abbandonare un punto di vista in favore di un altro, pur continuando a riflettere sulle stesse cose.

L’esperienza soggettiva, tuttavia, non sembra rientrare in questo schema. Con essa l’idea di muovere dalle apparenze alla realtà non sembra avere senso. Che cosa corrisponde in questo senso alla ricerca di una comprensione più oggettiva degli stessi fenomeni, abbandonando il punto di vista soggettivo inizialmente adottato nei loro confronti in favore di un altro più oggettivo ma che riguarda la stessa cosa? Certamente appare improbabile che possiamo avvicinarci alla natura reale dell’esperienza umana abbandonando la particolarità del nostro punto di vista umano e sforzandoci di giungere a una descrizione accessibile a esseri incapaci di immaginare che cosa si provi a essere noi. Se il carattere soggettivo dell’esperienza si può comprendere compiutamente da un solo punto di vista, allora nessuno spostamento verso una maggiore oggettività, cioè nessun distacco da un punto di vista specifico, ci porterà più vicini alla natura reale del fenomeno: anzi ce ne allontanerà.
In un certo senso i germi di questa obiezioni alla riducibilità dell’esperienza si possono già riscontrare in certi casi riusciti di riduzione; infatti nello scoprire che il suono è in realtà un fenomeno ondulatorio che avviene nell’aria o in altri mezzi, noi abbandoniamo un punto di vista per assumerne un altro, e il punto di vista uditivo, umano o animale, che abbandoniamo non viene ridotto. Due individui appartenenti a specie radicalmente diverse possono capire entrambi gli stessi eventi fisici in termini oggettivi, senza per questo dover capire le forme fenomeniche sotto le quali quegli eventi appaiono ai sensi degli appartenenti all’altra specie. Perciò il loro riferirsi a una realtà comune ha come condizione che i loro punti di vista più particolari non facciano parte della realtà comune che entrambi colgono. La riduzione può riuscire solo se il punto di vista proprio della specie viene eliminato da ciò che si deve ridurre.

Tuttavia, mentre è giusto mettere da parte questo punto di vista quando si ricerca una comprensione più piena del mondo esterno, non lo si può ignorare in modo permanente, dato che esso costituisce l’essenza del mondo interiore e non semplicemente un punto di vista su di esso. In massima parte il neocomportamentismo della recente psicologia filosofica deriva dallo sforzo di sostituire alla mente reale un concetto oggettivo di mente, allo scopo di non lasciare nulla che non possa essere ridotto. Se riconosciamo che una teoria fisica della mente deve spiegare il carattere soggettivo dell’esperienza, dobbiamo ammettere che nessuna delle concezioni attuali ci dà un’indicazione su come si possa ottenere una tale spiegazione. Il problema è unico. Se i processi mentali sono davvero processi fisici, allora si prova, intrinsecamente(9), qualcosa nel subire certi processi fisici. Che cosa poi ciò sia, resta un mistero.

Che morale si può ricavare da queste riflessioni, e quale deve essere il passo successivo? Sarebbe un errore concludere che il fisicalismo è necessariamente falso. L’inadeguatezza delle ipotesi fisicaliste che postulano un’analisi falsamente oggettiva della mente non dimostra nulla. Sarebbe più giusto dire che il fisicalismo è una posizione che non possiamo capire perché ora non abbiamo alcuna concezione di come esso potrebbe essere vero. Ma forse si giudicherà irragionevole considerare il processo di una concezione del genere come una condizione per la comprensione. Dopotutto, si potrebbe dire, il significato del fisicalismo è chiaro: gli stati della mente sono stati del corpo; gli eventi mentali sono eventi fisici. Non sappiamo quali stati e quali eventi fisici essi siano, ma questo non dovrebbe impedirci di comprendere l’ipotesi. Che cosa ci potrebbe essere di più chiaro delle parole “é” e “sono”?

Ma io credo che proprio questa chiarezza che attribuiamo alla parola “é” sia ingannevole. Di solito, quando ci dicono che X è Y, noi sappiamo come si intende che ciò sia vero, ma questo dipende da uno sfondo concettuale o teorico che non è trasmissibile dal solo “è”. Di “X” e “Y” sappiamo come si riferiscono alle cose e il genere di cose cui si riferiscono, e abbiamo un’idea più o meno precisa di come i due percorsi referenziali potrebbero convergere su un’unica cosa, sia essa un oggetto, una persona, un processo, un evento o altro. Ma quando i due termini dell’identificazione sono molto disparati, può non essere altrettanto chiaro come ciò possa essere vero. Potremmo non avere neppure un’idea approssimata di come i due percorsi referenziali potrebbero convergere o su che genere di cose essi potrebbero convergere; e per farci comprendere ciò, può darsi che sia necessaria un’impalcatura teorica. Senza questa impalcatura, l’identificazione sarebbe circondata da un alone di misticismo.

Questo spiega il sapore magico delle presentazioni divulgative delle scoperte scientifiche fondamentali, che vengono proclamate come proposizioni da accettare senza veramente capirle. Oggi per esempio, fin da bambini si sente dire che tutta la materia in realtà è energia. Ma nonostante tutti sappiano che cosa significa “è”, la maggior parte della gente non si farà un idea di che cosa rende vera questa affermazione, perché non possiede un preparazione teorica.

La situazione odierna del fisicalismo è simile a quella in cui si sarebbe trovata l’ipotesi che la materia è energia se fosse stata formulata da un filosofo presocratico. Non abbiamo la più pallida concezione di come il fisicalismo potrebbe essere vero. Per poter capire l’ipotesi che un evento mentale è un evento fisico abbiamo bisogno di capire qualcosa di più della parola “è”. non abbiamo alcuna idea di come un termine mentale ed un termine fisico potrebbero riferirsi alla stessa cosa, e le solite analogie con le identificazioni teoriche che osserviamo in altri campi non riescono a darcela. Non ci riescono perché, se interpretiamo il riferimento dei termini mentali agli eventi fisici secondo i modello solito, otteniamo o una ricomparsa degli eventi soggettivi separati come effetti attraverso i quali è assicurato il riferimento mentale agli eventi fisici, oppure una spiegazione falsa di come i termini mentali si riferiscono alle cose (ad esempio una spiegazione comportamentista causale).

Può sembrare strano, ma è possibile avere una prova della verità di qualcosa che non riusciamo a comprendere realmente. Supponiamo che un tale all’oscuro della metamorfosi degli insetti rinchiuda un bruco in un recipiente sterilizzato e che, riaprendo il recipiente dopo qualche settimana, vi trovi una farfalla. Se questo tale è sicuro che il recipiente è sempre stato chiuso, ha ragione di credere che la farfalla sia, o sia stata in passato, il bruco, pur senza minimamente sapere in che senso ciò sia vero. (Una possibilità è per esempio che il bruco contenesse un minuscolo parassita alato che lo abbia divorato e sia quindi cresciuto fino a diventare la farfalla).

È concepibile che nei confronti del fisicalismo ci troviamo in una situazione analoga.

Donald Davidson ha sostenuto che gli eventi mentali, se hanno cause ed effetti fisici, devono possedere una descrizione fisica. Egli ritiene che abbiamo motivo di crederlo anche se non possediamo – anzi, anche se non potessimo possedere – una teoria psicofisica generale.(10) Il suo ragionamento è riferito agli eventi mentali intenzionali, ma io penso che abbiamo anche motivo di credere che le sensazioni sono processi fisici, pur senza essere in grado di capire come. La posizione di Davidson è che certi eventi fisici hanno proprietà mentali irriducibili, e forse una concezione che si possa formulare in questi termini è giusta. Ma nulla di cui oggi ci possiamo formare un concetto corrisponde a essa; e non abbiamo neppure alcuna idea di come sarebbe una reoria che ci sonsentisse di concepire una cosa del genere.(11)

Pochissimi sforzi sono stati dedicati al problema fondamentale (a proposito del quale non è assolutamente necessario parlare di cervello) se si possa attribuire significato all’ipotesi che le esperienze soggettive abbiano un qualche carattere oggettivo. In altre parole, ha senso che io mi chieda come sono realmente le mie esperienze, rispetto a come mi appaiono? Non ci è possibile avere una comprensione autentica dell’ipotesi che la loro natura possa essere rispecchiata in una descrizione fisica, se non comprendiamo l’idea più fondamentale che esse hanno una natura oggettiva (o che i processi oggettivi possono avere una natura soggettiva).(12)

Vorrei concludere con una proposta speculativa. Può darsi che ci si possa accostare al divario tra soggettivo e oggettivo da un’altra direzione. Mettendo da parte per il momento il rapporto tra mente e cervello, possiamo cercare di raggiungere una comprensione più oggettiva del mentale di per sé. Al momento non abbiamo alcuno strumento per riflettere sul carattere soggettivo dell’esperienza senza ricorrere all’immaginazione, cioè senza assumere il punto di vista del soggetto dell’esperienza. Questo ci dovrebbe spingere a costruire concetti nuovi e a inventare un metodo nuovo, una fenomenologia oggettiva che non dipendesse dall’empatia o dall’immaginazione. Anche se presumibilmente essa non potrebbe dar conto di tutto, il suo scopo sarebbe quello di descrivere, almeno in parte, il carattere soggettivo delle esperienze in una forma che fosse comprensibile a essere incapaci di avere quelle esperienze.

Dovremmo elaborare una fenomenologia siffatta per descrivere le esperienze sonar dei pipistrelli, ma si potrebbe anche cominciare dagli uomini: si potrebbe, per esempio, cercare di foggiare concetti che servano a spiegare a un cieco nato che cosa si prova a vedere. Prima o poi ci si troverebbe di fronte a un muro, ma dovrebbe essere possibile escogitare un metodo per esprimere in termini oggettivi molto più di quanto non possiamo esprimere oggi, e con una precisione molto maggiore. Le vaghe analogie intermodali (per esempio: “il rosso è come uno squillo di tromba”) che pullulano nelle discussioni su questo argomento servono a poco. Ciò dovrebbe essere chiaro a chiunque abbia udito una tromba e visto il rosso. Ma gli aspetti strutturali della percezione potrebbero essere più accessibili a una descrizione oggettiva, anche se qualche cosa ne verrebbe lasciato fuori. E concetti diversi da quelli che noi apprendiamo in prima persona ci possono consentire di arrivare a un tipo di comprensione anche della nostra stessa esperienza che ci è impedito proprio da quella facilità di descrizione e da quell’assenza di distanza che consentono i concetti soggettivi.

A parte il suo interesse intrinseco, una fenomenologia che fosse oggettiva in questo senso consentirebbe di dare una forma più intelligibile alle domande a proposito della base fisica(13) dell’esperienza. Gli aspetti dell’esperienza soggettiva che ammettessero questo genere di descrizione oggettiva potrebbero prestarsi meglio di altri a fornire spiegazioni oggettive di tipo più concreto. Ma indipendentemente dal fatto che questa congettura sia giusta o no, sembra improbabile che si possa formulare una qualunque teoria fisica della mente finché non si sarà riflettuto più a fondo sul problema generale della soggettività e dell’oggettività. Altrimenti non si potrà neppure porre il problema mente-corpo senza con ciò stesso eluderlo.

Riflessioni

He does all the things that you
[would never do;
He loves me, too –
His love is true.
Why can’t he be you?(14)

Hank Cochran, ca. 1955

Twinkle, twinkle, little bat,
How I wonder what you’re at,
Up above the world you fly,
Like a tea-tray in the sky.(15)

Lewis Carrol, ca. 1865

C’è un famoso rompicapo che viene posto nei corsi di matematica e di fisica: “Perché lo specchio scambia la destra e la sinistra, ma non l’alto e il basso?”. Esso costringe molti a una pausa di riflessione; chi non vuole sentirsi dire subito la risposta, salti i due capoversi che seguono.

La risposta è imperniata su quello che noi consideriamo un modo giusto di proiettare noi stessi sulle nostre immagini riflesse. La nostra prima impressione è che avanzando di qualche passo e poi girandoci sui tacchi, potremmo metterci al posto di “quella persona” là dentro lo specchio, dimenticandoci però che il cuore, l’appendice, eccetera, di “quella persona” sono dalla parte sbagliata. L’emisfero cerebrale che presiede al linguaggio non è, con ogni probabilità, dalla parte dove sta di solito. Da un punto di vista anatomico generale, tale immagine è in realtà una non-persona; a livello microscopico poi la situazione è ancora peggiore: le eliche delle molecole di DNA girano alla rovescia e la “persona” dello specchio non potrebbe accoppiarsi con una persona normale più di quanto potrebbe farlo un’anosrep!

Un momento, però: possiamo tenere il cuore dal lato giusto se, invece di girarci, ci mettiamo a testa in giù (per esempio, ruotando su una sbarra orizzontale posta all’altezza della vita). Ora il nostro cuore è dalla stessa parte di quello della persona dello specchio, ma i piedi e la testa sono nella posizione sbagliata, e lo stomaco, benché più o meno all’altezza giusta, è capovolto. Pare dunque che si possa considerare lo specchio come un dispositivo che scambia l’alto e il basso purché noi siamo disposti e proiettarci su una creatura che ha i piedi in alto e la testa in basso. Tutto dipende da come ci si vuole proiettare su un’altra entità. Si può scegliere tra una piroetta intorno a una sbarra orizzontale e una piroetta intorno a una sbarra verticale, tra avere il cuore nella posizione giusta e la testa e i piedi scambiati, e avere a posto la testa e i piedi ma non il cuore. Il fatto è semplicemente che, a causa della simmetria verticale esterna del corpo umano, una piroetta intorno a una sbarra verticale fornisce una corrispondenza fra noi e l’immagine in apparenza più plausibile. Ma agli specchi in realtà non importa in che modo noi interpretiamo ciò che essi fanno. E in realtà ciò che essi scambiano sono solo il davanti e il di dietro!

C’è qualcosa di molto ingannevole in questo concetto di proiezione, corrispondenza, identificazione, empatia o comunque lo si voglia chiamare. È un tratto umano fondamentale, al quale in pratica non si può resistere, eppure esso ci può condurre per sentieri concettuali molto strani. Il rompicapo appena visto ci mostra i pericoli di un’autoproiezione troppo facile, e il ritornello della canzonetta citato in epigrafe ci ricorda con maggior forza che è vano prendere troppo sul serio questa proiezione. Eppure non possiamo farne a meno, andiamo fino in fondo e abbandoniamoci a un’orgia di stravaganti variazioni sul tema proposto da Nagel col suo titolo.

Che cosa si prova a lavorare da McDonald? Ad avere trentotto anni? A essere a Londra oggi?

Che cosa si prova a scalare l’Everest? A vincere la medaglia d’oro della ginnastica alle Olimpiadi?

Che cosa si proverebbe a essere un buon musicista? A saper improvvisare fughe? A essere J.S. Bach? A essere J.S. Bach mentre scrive l’ultimo movimento del Concerto italiano?

Che cosa si prova a credere che la Terra sia piatta?

Che cosa si prova a essere una persona incommensurabilmente più intelligente di noi? O incommensurabilmente meno intelligente?

Che cosa si prova a detestare il cioccolato (o la cosa che ci piace di più)?

Che cosa si prova sentir parlare italiano (o la propria madrelingua) senza capire niente?

Che cosa si prova ad appartenere all’altro sesso? (Si veda sopra “Un problema di rigetto”).

Che cosa si proverebbe a essere la nostra immagine allo specchio? (Si veda il film Journey to the Far Side of the Sun).

Che cosa si proverebbe a essere il fratello di Chopin (che non ne aveva)? O l’attuale re di Francia?

Che cosa si prova a essere una persona sognata? A essere una persona sognata nel momento in cui suona la sveglia? A essere Holden Caulfield? A essere il sottosistema del cervello di J.D. Salinger che rappresenta il personaggio di Holden Caufield?

Che cosa si prova a essere una molecola? Un insieme di molecole? Un microbo? Una zanzara? Una formica? Un formicaio? Un’arnia? La Cina? Gli Stati Uniti? Detroit? La General motors? Il pubblico di un concerto? Una squadra di baseball? Una coppia sposata? Una mucca con due teste? Due fratelli siamesi? Una persona commissurotomizzata? Metà di una persona commissurotomizzata? La testa di un ghigliottinato? O il suo corpo? La corteccia visiva di Picasso?

Il centro del piacere di un ratto? La gamba spasmodica di una rana sezionata? L’occhio di un’ape? Una cellula della retina di Picasso? Una molecola di DNA di Picasso?

Che cosa si prova a essere sotto anestesia totale? A essere uccisi da una scarica elettrica? A essere un maestro Zen che abbia raggiunto uno stato di satori in cui non esiste più il soggeto (l’“io”, l’ego, il sé)?

Che cosa si prova a essere un ciottolo? Un carillon a vento? Un corpo umano? La rocca di Gibilterra? La galassia di Andromeda? Dio?

L’immagine evocata dalla frase “Che cosa si prova a essere X?” ècosì seducente e tentatrice… E la nostra mente è flessibile, pronta ad accettare questo concetto, questa idea che “si prova qualcosa a essere un pipistrello”. Inoltre siamo prontissimi a far nostra l’idea che vi siano cose a “essere” le quali “si prova qualcosa” – “cose esseribili”, come i pipistrelli, le mucche, le persone; e altre cose per le quali ciò non vale, come le palle, le bistecche, le galassie (benché una galassia possa contenere innumerevoli cose esseribili). Qual è il criterio dell’esseribilità?

Nella letteratura filosofica sono state usate molte espressioni per tentare di evocare le impressioni giuste di ciò che è veramente l’essere senzienti (una di queste espressioni è appunto “essere senzienti””. Un termine di uso antico è “anima”; di questi tempi una parola alla moda è “intenzionalità”; si può anche ricorrere alla stagionata “coscienza”. Poi ci sono “essere un soggetto”, “avere un punto di vista”, avere una “ubicazione percettiva” o una “personalità” o un “sé” o il “libero arbitrio”. Per certe persone le immagini giuste sono suggerite da “avere una mente”, “essere intelligenti” o il comune e onesto “pensare”. Nell’articolo di Searle veniva tracciata la distinzione tra “forma” (vuota e meccanica) e “contenuto” (vivo e intenzionale); per caratterizzare queste distinzione venivano usate anche le parole “sintattico” e “semantico” (o “privo di significato” e “significativo”). Tutti i termini di questo vasto assortimento sono quasi sinonimi: tutti hanno a che fare col problema emotivo se abbia o no senso proiettare noi stessi sull’oggetto in questione: “Quest’oggetto è esseribile o no?”. Ma esiste realmente qualche cosa a cui questi termini si riferiscono?

Nagel dice chiaramente che la “cosa” che lui cerca è un distillato di ciò che è comune alle esperienze soggettive di tutti i pipistrelli; non è l’insieme delle esperienze di un pipistrello particolare. Searle potrebbe quindi dire che Nagel è un “dualista”, dal momento che crede in una qualche astrazione operata a partire dalle esperienze di tutti quegli individui.

Qualche lume su queste complesse faccende ci viene dalla grammatica delle frasi che invitano il lettore a eseguire una proiezione mentale. Si consideri per esempio la differenza fra queste due domande: “Che cosa si proverebbe a essere Indira Gandhi?” e “Che cosa si prova a essere Indira Gandhi?”. La domanda al condizionale ci spinge a proiettarci nella “pelle”, per così dire, di un’altra persona, mentre la domanda all’indicativo sembra chiedere che cosa prova Indira Gandhi a essere Indira Gandhi. Si potrebbe sempre chiedere: “Nei termini di chi bisogna descriverlo?”. Se a cercare di spiegarci che cosa si prova a essere Indira Gandhi fosse Indira Gandhi, essa potrebbe cercare di spiegarci i problemi della vita politica indiana riferendosi a elementi della nostra esperienza da lei considerati vagamente analoghi. Se protestassimo: “No, non traduca dei miei termini! Lo dica nei suoi termini! Mi dica che cosa prova Indira Gandhi, in quanto Indira Gandhi, a essere Indira Gandhi!”, in tal caso, naturalmente, tanto varrebbe che essa rispondesse in hindi, lasciandoci la briga d’imparare questa lingua. Ma anche dopo averla imparata saremmo nella stessa posizione di milioni di persone di lingua hindi che non hanno idea di che cosa si proverebbe a essere Indria Gandhi, per non dire di che cosa provi Indria Gandhi a essere Indria Gandhi…

C’è qualcosa che ha l’aria di essere molto sbagliato in tutto ciò. Nagel dice e ripete di volere che il suo verbo “essere” sia in effetti senza soggetto. Non “Che cosa proverei io a essere X?”, bensì “Che cosa si prova oggettivamente a essere X?”. Abbiamo qui un “essuto” senza “essente”, per così dire. Forse sarà meglio tornare alla versione condizionale: “Che cosa si proverebbe ad essere Indria Gandhi?”. Ma per me o per lei? E dove va la povera Indria, mentre io sono lei? Oppure, se rovesciamo la situazione “poiché l’identità è una relazione simmetrica), otteniamo, “Che cosa proverebbe Indria Gandhi ad essere me?”. E anche qui, dove andrei io se essa fosse me? Ci scambieremmo i posti? Oppure fonderemmo temporaneamente due “anime” separate in una sola?

Si noti che tendiamo a dire: “Se essa fosse me” e non “Se essa fosse io”. Molte lingue europee sono piuttosto capricciose con equazioni di questo tipo. Suona strano usare il nominativo tanto per il soggetto quanto per il complemento oggetto e si preferisce usare “essere” con l’accusativo come se si trattasse in qualche modo di un verbo transitivo! “Essere” non è un verbo transitivo, bensì un verbo simmetrico, eppure la lingua ci allontana da questa visione simmetrica.

Possiamo vederlo nel tedesco, che presenta alternative interessanti per costruire tali proposizioni assertrici d’identità. Ecco due esempi, tratti con qualche modifica della traduzione tedesca di un dialogo di Stanislaw Lem, dove sta per essere costruita una replica esatta, molecola per molecola, di una persona che sta per morire. Nello stesso spirito, daremo la replica (quasi) esatta, parola per parola, in inglese e in italiano dell’originale tedesco:

  1. Ob die Kopie wirklich du bist, dafür muss der Beweis noch erbracht werden.
    As-to-whether the copy really you are, thereof must the proof still provided be. Se la copia davvero tu sei, di-ciò deve la prova ancora fornita essere.

  2. Die Kopie wird behaupten, daß sie du ist.
    The copy will claim that it you is. La copia sosterrà che essa tu è.

Si osservi che in entrambe le proposizioni dove si asserisce l’identità “la copia” (o “essa”) viene per prima, poi viene il “tu” e poi il verbo. Ma si noti: nella prima il verbo è “sei”, il che implica retroattivamente che “tu” era il soggetto e che “la copia” era il complemento, mentre nella seconda il verbo è “è”, il che implica retroattivamente che il soggetto era “essa” e il complemento era “tu”. La posizione finale del verbo dà a queste proposizioni un certo sapore di conclusione a sorpresa. In inglese e in italiano non è facile ottenere lo stesso effetto, ma possiamo chiederci quale sia la differenza di sfumatura di significato delle frasi “La copia è realmente te?” e “Tu sei realmente la copia?”. Queste due domande “scivolano” nella nostra mente lungo dimensioni diverse. La prima scivola in quest’altra domanda: “Oppure la copia è in realtà qualcun altro, o magari non è nessuno?”. La seconda scivola in: “Oppure tu sei altrove, oppure non sei in nessun posto?”. Il titolo del nostro libro, fra l’altro, può essere interpretato non sole come un possessivo, ma altrettanto legittimamente come una breve risposta completa alle due domande “Chi sono io?” e “Chi è me”.(16) Si noti come l’uso transitivo – che a rigore è un uso sgrammaticato di “essere” – dia alla seconda domanda un “sapore” affatto diverso dalla prima.

[D.C.D. a D.R.H.: Se io fossi te, ricorderei anche come sarebbe curioso permettere a un consiglio “Se tu fossi me, io…”, ma se tu fossi me, io ti suggerirei di ricordarlo?

Tutti questi esempi dimostrano quanto siamo suggestionabili. Accettiamo senza batter ciglio l’idea che lì dentro ci sia un’”anima”, una sorta di fiammella che può accendersi o spegnersi o addirittura essere trasferita da un corpo all’altro come la fiamma da una candela a un’altra. Se una candela si spegne e viene riaccesa, è ancora “la stessa fiamma”?. Oppure, se rimane accesa, è sempre “la stessa fiamma” i ogni momento? La fiaccola olimpica viene mantenuta costantemente accesa quando, ogni quattro anni, viene trasportata di corsa per migliaia di chilometri da Atene alla sua destinazione. Vi è un simbolismo molto forte nell’idea che si tratti “proprio della fiamma che è stata accesa ad Atene”. La benché minima interruzione della catena distruggerebbe il simbolismo per chi lo sapesse. Naturalmente per chi non lo sapesse, non ci sarebbe alcun male! Che importanza potrà mai avere? Eppure da un punto di vista emotivo pare che ne abbia. Non sarà estinta facilmente, questa idea dell’“anima-fiamma”: eppure ci trascina in un mare di problemi.

Intuiamo certamente che possono scivolare l’una nell’altra solo cose che abbiano più o meno “anime delle stesse dimensioni”. Il racconto di fantascienza Fiori per Algernon di Daniel Keyes, narra di un giovanotto ritardato che, in seguito a una cura medica miracolosa, diventa a poco a poco sempre più intelligente fino a diventare un grande genio; ma poi si scopre che gli effetti della cura non sono durevoli, ed “egli” assiste al proprio regresso mentale fino allo stato di deficienza originario. Questo racconto di fantasia ha un corrispettivo nella vera tragedia di coloro che, dopo essere cresciuti da uno stato di intelligenza nulla a uno di normale intelligenza adulta, assistono al proprio decadimento mentale; o nella tragedia di coloro che subiscono gravi danno al cervello. E tuttavia sono in grado di rispondere alla domanda “Che cosa si prova quando l’anima ti sfugge via?” meglio di quanto possa farlo una persona dotata di una vivida immaginazione?

La metamorfosi di Franz Kafka è la storia di un giovane che una mattina si sveglia trasformato in un gigantesco insetto il quale tuttavia pensa come una persona. Sarebbe interessante combinare l’idea di Fiori per Algernon con quella della Metamorfosi e immaginare le esperienze di un insetto la cui intelligenza crescesse fino a essere quella di un uomo di genio (e già che ci siamo, perché non di un superuomo?) e poi ridiscendesse al livello d’insetto. Questa, tuttavia, è una cosa che ci è praticamente impossibile concepire. Prendendo in prestito il gergo degli ingegneri elettrotecnici, diremo che l’“adattamento d’impedenza” delle menti interessate è troppo cattivo. In effetti, l’adattamento d’impedenza può ben essere il criterio principale per saggiare la plausibilità di domande del tipo di quelle posta da Nagel. Che cosa è più facile immaginare di essere: il personaggio del tutto fittizio Holden Caulfield, oppure un qualche pipistrello reale? Naturalmente è molto più facile proiettarsi su un uomo fittizio che non su un pipistrello reale: molto più facile, molto più reale. Ciò è un po’ sorprendente. Sembra che il verbo “essere” di Nagel qualche volta si comporti in un modo molto strano. Forse, come si suggeriva nel dialogo sul test di Turing, il verbo “essere” viene esteso; forse viene addirittura stirato oltre i propri limiti!

In tutta questa faccenda c’è qualcosa di molto sospetto. Com’è possibile che una cosa sia qualcosa che non è? E come diventerebbe più plausibile questo fatto quando le due cose potessero “avere esperienze soggettive”? Quasi non ha senso per noi chiederci cose come: “Che cosa proverebbe quel ragno nero laggiù a essere quella zanzara prigioniera nella sua ragnatela?”; o peggio ancora: “Che cosa proverebbe il mio violino a essere la mia chitarra?”; oppure: “Come sarebbe questa frase se fosse un ippopotamo?”. Ma per chi? Per i vari soggetti interessato, siano essi senzienti o no? Per noi che percepiamo? O, ancora, “oggettivamente”?

Questo è il punto dove s’incaglia l’articolo di Nagel. Egli vuol sapere se sia possibile dare, per usare le sue parole, “una descrizione [della natura reale dell’esperienza umana] in termini accessibili a esseri incapaci di immaginarsi che cosa si proverebbe a essere noi”. Detta così, nuda e cruda, la cosa suona come una vistosa contraddizione: e in effetti è questo che Nagel vuol dire. Non vuole sapere che cosa provi lui a essere un pipistrello: vuole sapere oggettivamente che cosa si provi soggettivamente. Non gli basterebbe aver vissuto l’esperienza di indossare un “casco pipistrellatore”, un casco dotato di elettrodi che gli stimolassero il cervello procurandogli esperienze da pipistrello: di aver sperimentato la “pipistrellità”. Questo, in fin dei conti, sarebbe solo quello che proverebbe Nagel a essere un pipistrello. Che cosa dunque lo soddisferebbe? Egli non è certo che qualcosa possa soddisfarlo, ed è questo che lo tormenta. Egli teme che questa idea di “avere delle esperienze soggettive” si trovi fuori dall’ambito dell’oggettività.

Ora, tra i vari sinonimi di esseribilità elencati sopra, quello che suona forse più oggettivo è “avere un punto di vista”. In fin dei conti, anche il più dogmatico degli scettici sull’intelligenza delle macchine probabilmente attribuirebbe, anche se brontolando, un “punto di vista” a u programma di calcolatore che rappresentasse alcuni fatti riguardanti il mondo e il proprio rapporto col mondo. È un fatto indiscutibile che un calcolatore può essere programmato in modo da descrivere il mondo circostante in termini di un sistema di riferimento incentrato sulla macchina stessa, come in questa frase: “Tre minuti fa l’orsacchiotto di pezza era a trentacinque leghe a oriente di qui”. Un tale sistema di riferimento incentrato intorno al “qui e ora” costituisce un rudimentale punto di vista “egocentrico”. “Essere qui e ora” è un esperienza fondamentale per qualunque “io”; d’altra parte, come si può definire il “qui” e l’“ora” senza far riferimento a un qualche “io”? È inevitabile questa circolarità?

Riflettiamo un momento sul legame tra “io” e “ora”. Che cosa si proverebbe a essere una persona cresciuta normalmente, e quindi dotata di capacità percettive e linguistiche normali, la quale poi, in seguito a una lesione al cervello, non fosse più in grado di convertire i circuiti neuronici riverberanti della memoria a breve termine in ricordi a lungo termine? Il senso di esistenza di questa persona si estenderebbe solo di pochi secondi al di qua e al di là dell’“ora”. Non avrebbe alcun senso della continuità del sé su ampia scala; nessuna visione interna di una catena di sé che si estende in entrambe le direzioni del tempo per costituire un’unica persona coerente. Quando si subisce una commozione cerebrale, gli istanti immediatamente precedenti vengono cancellati dalla mente, ed è come se non si fosse mai stati coscienti di essi. Se qualcuno mi colpisse in testa in questo momento, nel mio cervello non resterebbe alcuna traccia permanente dell’aver scritto queste ultime frase. Chi, dunque, ne ha avuto esperienza? Un’esperienza diventa parte di noi solo quando sia stata affidata alla memoria a lungo termine? Chi ha sognato tutti quei sogni di cui non ricordiamo neppure un frammento?

Proprio come “io” e “ora” sono termini strettamente legati, così lo sono anche “io” e “qui”. Supponiamo di fare adesso l’esperienza della morte in un modo piuttosto curioso. Quelli di noi che in questo momento non sono a Parigi sanno che cosa si provi a essere morti a Parigi: niente luci, niente suoni, niente di niente. Lo stesso vale per Timbuctu. In effetti noi siamo morti dappertutto… tranne che in una piccola zona. Si pensi quanto poco ci manca per essere morti dappertutto! E siamo anche morti in tutti gli altri momenti che non siano questo preciso momento. Il piccolo frammento di spazio-tempo in cui siamo vivi non si trova per caso dove si trova ora il nostro corpo: esso è definito dal nostro corpo e dal concetto di “ora”. In tutte le lingue esistono parole che contengono un ricco insieme di associazioni con “qui” e “ora”, in parole come “io”, “me” e così via.

Oggi capita spesso di programmare il calcolatore e impiegare parola come “io” e “me” e “mio” per descrivere i propri rapporti col mondo. Naturalmente dietro queste parole non deve necessariamente esserci un concetto del sé molto elaborato; però può esserci. In sostanza, qualsiasi sistema rappresentazionale fisico, del tipo definito nelle Riflessioni su “Preludio e… mirmecofuga”, è l’espressione di un qualche punto di vista, per quanto modesto. Questo legame esplicito tra “avere un punto di vista” e “essere un sistema rappresentazionale” ci consente ora di fare un passo avanti nella riflessione sull’esseribilità, poiché se potremo identificare gli esseribili con quei sistemi rappresentazionali fisici il cui repertorio di categorie sia abbastanza ricco e i cui ricordi delle linee d’universo siano abbastanza ben rubricati, avremo resa oggettiva almeno una parte della soggettività.

Si deve osservare che quello che c’è di strano nell’idea di “essere un pipistrello” non è che i pipistrelli percepiscono il mondo esterno in modo stravagante: è che i pipistrelli hanno manifestamente un insieme di categorie concettuali e percettive ridottissimo rispetto a quello di noi uomini. In un certo senso le modalità sensoriali sono sorprendentemente intercambiabili ed equivalenti. Per esempio è possibile provocare esperienze visive tanto nei ciechi quanto nei vedenti servendosi del senso del tatto. Contro la schiena del soggetto viene appoggiata una griglia di oltre un migliaio di stimolatori pilotati da una telecamera; le sensazioni vengono inviate al cervello, dove la loro elaborazione può provocare esperienze visive. Una donna vedente così riferisce la propria esperienza di visione protesica.

Ero seduta sulla sedia, bendata; sentivo contro la schiena il freddo dei coni del convertitore tattovisivo. Dapprima sentii solo ondate di sensazioni: Collins mi disse che stava soltanto muovendo la mano davanti a me, per abituarmi alla sensazione. Tutt’a un tratto sentii, o vidi, non so quale dei due, un triangolo nero nell’angolo in basso a sinistra di un quadrato. Mi era difficile localizzare esattamente la sensazione. Sentivo delle vibrazioni sulla schiena, ma il triangolo appariva in una cornice quadrata dentro la mia testa. (Nancy Hechinger, “Seeing Without Eyes”, Science 81, 1981, p. 43).

È ben nota la possibilità di trascendere in modo analogo le modalità degli ingressi sensoriali. Come si è fatto notare in un brano precedente, una persona che porti occhiali prismici che capovolgono tutto può abituarsi benissimo, dopo due o tre settimane, a vedere il mondo in questa maniera. E, su un piano più astratto, una persona che impari una lingua straniera continua ad avere praticamente la stessa esperienza del mondo delle idee.

Quindi, in realtà, non è né il modo in cui gli stimoli vengono trasdotti in percezioni né la natura del mezzo che costituisce il supporto del pensiero ciò che rende la “Weltanschauung del pipistrello” diversa dalla nostra: è l’insieme limitatissimo delle categorie, unitamente al diverso accento posto su ciò che nella vita è importante e ciò che non lo è. È il fatto che i pipistrelli non sono in grado di formarsi concetti tipo “la Weltanschauung umana” e di farci sopra dell’umorismo, perché sono troppo indaffarati, essendo sempre nell’ambito della pura sopravvivenza.

La domanda di Nagel ci costringe a riflettere – e a riflettere molto seriamente – sulla questione di come si possa mettere in corrispondenza la nostra mente con quella di un pipistrello. Che genere di sistema rappresentazionale è la mente di un pipistrello? Possiamo immedesimarci con un pipistrello? In questa prospettiva, la domanda di Nagel appare strettamente collegata al modo in cui un sistema rappresentazionale ne emula un altro, secondo quanto si è visto nelle Riflessioni su “Menti, cervelli e programmi”. Apprendiamo qualcosa se domandiamo a un Sigma-5: “Che cosa si prova a essere un DEC?”. No, sarebbe una domanda sciocca, e per il motivo seguente: un calcolatore non programmato non è un sistema rappresentazionale. Anche quando un calcolatore ha un programma che gli consente di emularne un altro, ciò non gli conferisce il potere rappresentazionale di affrontare i concetti contenuti in questa domanda. Per farlo gli occorrerebbe un programma di IA molto avanzato, un programma che, fra l’altro, potesse usare il verbo “essere” in tutti i modi in cui lo usiamo noi (compreso il senso esteso di Nagel). La domanda da porre, piuttosto, sarebbe questa: “Che cosa provi tu, come programma di IA che capisse se stesso, a emulare un altro programma dello stesso tipo?”. Ma questa domanda comincia a somigliare molto a quest’altra: “Che cosa prova una persona a immedesimarsi profondamente in un’altra?”.

Come abbiamo sottolineato in precedenza, gli esseri umani non hanno la pazienza o le doti di precisione per emulare anche per breve tempo un calcolatore. Quanto tentano di mettersi nei panni di altri esseribili, gli uomini tendono a immedesimarsi, non a emulare. Esso “sovvertono” il proprio sistema di simboli interno adottando volontariamente un insieme di inclinazioni che modificano le concatenazioni dell’attività simbolica del loro cervello. Non è esattamente come prendere l’LSD, benché anche questo provochi cambiamento radicali nel modo in cui i neuroni comunicano tra di loro. L’LSD lo fa con effetti imprevedibili che dipendono da come essi si diffonde all’interno del cervello, senza che ciò abbia alcun rapporto con il significato dei simboli. L’LSD agisce sul pensiero più o meno come farebbe una pallottola sparata nel cervello: nessuno di questi due corpi estranei tiene nel minimo conto il potere simbolico della materia cerebrale.

Ma un’inclinazione messa in atto mediante i canali simbolici – “Fammi un po’ pensare a che cosa si proverebbe a essere un pipistrello” – instaura un contesto mentale. Tradotto in termini meno mentalistici e più fisici, il tentativo di proiettare noi stessi nel punto di vista di un pipistrello attiva certi simboli del nostro cervello. Questi simboli, finché rimangono attivati, contribuiscono alle strutture di attivazioni di tutti gli altri simboli che vengono attivati. E il cervello è abbastanza complesso da riuscire a trattare certe attivazioni come stabili – cioè come contesto – con la successiva attivazione di altri simboli in maniera subordinata. Così, cerchiamo di “pensare da pipistrello”, sovvertiamo il nostro cervello, stabilendo contesti neuronici che incanalano i nostri pensieri lungo percorsi diversi da quelli che seguono d’ordinario. (E tanto peggio se non riusciamo a “pensare da Einstein” quando vogliamo!).

Tutta questa ricchezza, tuttavia, non riesce a portarci fino alla pipistrellità. Il simbolo del sé di ciascuna persona – il “nucleo personale” o la “gemma” della personetica di Lem – è diventato, nel corso della sua vita, così vasto, complicato e idiosincratico che non è più in grado di assumere, come un camaleonte, l’identità di un’altra persona o di un altro essere. La sua storia individuale è troppo avvinta in quel minuscolo “nodo” che è il simbolo del sé.

È interessante considerare due sistemo così simili da avere simboli del sé isomorfi o identici: per esempio una donna e la sua replica atomo per atomo. Se la donna pensa a se stessa, pensa anche alla sua replica? C’è chi fantastica che da qualche parte lassù in cielo vi sia un’altra persona identica a lui; quando pensa a se stesso, costui pensa, senza rendersene conto, anche a questa persona? A chi sta pensando la persona lassù in questo momento? Che cosa si proverebbe a essere quella persona? È lui quella persona? Se dovesse scegliere, chi lascerebbe uccidere, quella persona o se stesso? L’unica cosa che Nagel nel suo articolo sembra non aver riconosciuto è che il linguaggio (fra le altre cose) è un ponte che ci consente di penetrare in un territorio che non è il nostro. I pipistrelli non hanno alcuna idea di “che cosa si provi a essere un altro pipistrello” e nemmeno si pongono il problema. E la ragione è che i pipistrelli non hanno una moneta universale per lo scambio delle idee, che a noi invece è fornita dal linguaggio, dai film, dalla musica, dai gesti e via dicendo. Questi mezzi ci aiutano nella nostra proiezione, ci aiutano ad assorbire punti di vista estranei. Mediante una moneta universale, i punti di vista diventano più modulari, più trasferibili, meno personali e idiosincratici.

La conoscenza è una curiosa mescolanza di oggettivo e di soggettivo. La conoscenza verbalizzabile può essere trasferita ad altri e condivisa nella misura in cui le parole realmente “significano la stessa cosa” per persone diverse. Due persone parlano mai la stessa lingua? Ciò che intendiamo dicendo “parlano la stessa lingua” è una questione spinosa. Noi accettiamo e diamo per scontato che le sfumature nascoste e sotterranee del significato non vengono condivise. Sappiamo, più o meno, che cosa si mantiene e che cosa si perde nelle transazioni linguistiche. Il linguaggio è un mezzo pubblico per lo scambio delle esperienze più private. Ogni parola è circondata, in ogni mente, da un ricco e inimitabile alone di concetti e sappiamo che, per quanto ci sforziamo di portarlo in superficie, ne perdiamo sempre una parte. Possiamo al massimo darne un’idea approssimata. (Per una discussione approfondita di tutto ciò, si veda After Babel, di George Steiner). Grazie ai mezzi per lo scambio dei memi (si veda sopra “Geni egoisti e memi egoisti”), come il linguaggio e i gesti, possiamo sperimentare (talvolta in modo vicariante) che cosa si provi a essere o a fare X. Non è mai una cosa autentica, ma che cos’è poi una conoscenza autentica di ciò che si prova a essere X? Non sappiamo neppur bene che cosa si provava a essere noi dieci anni fa: lo possiamo dire solo rileggendo il nostro diario, e anche così, mediante una proiezione! È sempre un modo vicariante. Peggio ancora, spesso non sappiamo neppure come abbiamo potuto fare ciò che abbiamo fatto ieri. E tutto sommato, a pensarci bene, non è neppure tanto chiaro che cosa si provi a essere me in questo momento.

È il linguaggio che ci caccia in questo problema (permettendoci di vedere la questione) e che ci aiuta anche a uscirne (i quanto è un mezzo universale di scambio di pensieri, che consente di rendere condivisibili e più oggettive le esperienze). Tuttavia esso non può farci arrivare fino in fondo.

In un certo senso, il teorema di Gödel è un corrispettivo matematico del fatto che io non riesco a capire che cosa si provi a non trovare buono il cioccolato o a essere un pipistrello, se non attraverso una successione infinita di processi di simulazione sempre più precisi, che convergono verso l’emulazione senza tuttavia mai raggiungerla. Sono prigioniero dentro di me e quindi non posso vedere come sono gli altri sistemi. Il teorema di Gödel deriva da un conseguenza di questo fatto generale: sono prigioniero dentro di me e perciò non posso vedere come gli altri sistemi mi vedono. Quindi i dilemmi concernenti soggettività e oggettività posti da Nagel con tanta acutezza sono in qualche modo collegati ai problemi epistemologici tanto della logica matematica quanto, come abbiamo visto in precedenza, dei fondamenti della fisica. Queste idee sono esposte con maggiore ampiezza nell’ultimo capitolo di Gödel, Escher, Bach, di Hofstadter.

D.R.H.

  1. Può darsi che robot siffatti non possano esistere. Forse qualunque cosa abbastanza complessa da comportarsi come una persona avrebbe esperienze soggettive. Ma se ciò fosse vero, non potremmo scoprirlo mediante la sola analisi del concetto di esperienza soggettiva.
  2. Esso non è equivalente a ciò in cui siamo incorreggibili, sia perché non siamo incorreggibili per quanto riguarda l’esperienza soggettiva sia perché l’esperienza soggettiva è presente in animali privi di linguaggio e di pensiero, che non hanno credenze o opinioni sulle loro esperienze.
  3. Quando dico “la nostra situazione” non intendo semplicemente “la mia situazione”, ma piuttosto quelle idee mentalistiche che noi applichiamo senza porci troppi problemi a noi stessi e agli altri esseri umani.
  4. Quindi la forma analogica dell’espressione inglese “what is like” [qui e altrove tradotta “che cosa si prova”, ma alla lettera: “a che cosa è simile” è fuorviante, perché ciò che ci chiediamo non è: “a che cosasomiglia (nella nostra esperienza)”, bensì “com’è per il soggetto stesso”.
  5. Qualunque extraterrestre intelligente del tutto diverso da noi.
  6. Superare le barriere interspecifiche con l’ausilio dell’immaginazione è forse più facile di quanto non si creda. Per esempio, i ciechi sono capaci di rivelare oggetti vicini mediante una specie di sonar, schioccando la lingua o battendo un bastone. Forse, sapendo che cosa si prova in questi casi, si potrebbe per estensione immaginare grossomodo che cosa si proverebbe a usare il sonar tanto più raffinato di un pipistrello. La distanza fra un individuo e le altre persone o le altre specie può cadere in un punto qualunque di un continuo. Anche nel caso di altre persone la comprensione di che cosa si prova a essere loro è solo parziale e quando si passa a specie molto diverse da noi ci può essere ancora un comprensione parziale, sia pure minore. L’immaginazione è assai flessibile. Ciò che voglio dire, tuttavia, non è che noi non possiamo sapere che cosa si provi a essere un pipistrello. Non sto sollevando questo problema epistemologico: ciò che voglio dire è che anche solo per formarsi un idea di ciò che si prova a essere un pipistrello (e a fortiori per sapere che cosa si prova a essere un pipistrello) si deve assumere il punto di vista del pipistrello. Se si riesce ad assumerlo in modo approssimativo o parziale, anche l’idea conseguente sarà approssimativa o parziale. Almeno così sembra nello stato in cui ora comprendiamo questo problema.
  7. Il problema che sto per sollevare può quindi essere posto anche se la distinzione tra descrizioni o punti di vista più soggettivi o più oggettivi può essere fatta a sua volta solo entro un più ampio punto di vista umano. Io non accetto questo genere di relativismo concettuale, ma non è necessario respingerlo per giungere alla conclusione che la riduzione psicofisica non può trovar luogo nell’ambito del modello dal-soggettivo-all’oggettivo che ci è familiare da altri casi.
  8. Il problema non è solo che quando guardo La Gioconda la mia esperienza visiva ha una certa qualità della quale nessuna traccia potrà essere trovata da chi guardi dentro il mio cervello. Infatti, anche se costui vi vedesse una figuretta della Gioconda, non avrebbe alcun motivo per identificarla con la mia esperienza.
  9. Ci sarebbe dunque un rapporto non contingente, come quello tra una causa e il suo effetto distinto: sarebbe necessariamente vero che un certo stato fisico produce certe sensazione. Kripke (1972) sostiene che il comportamento causale e le analisi del mentale a esso collegate falliscono perché interpretano, per esempio, “dolore” come un nome puramente contingente dei dolori. Il carattere soggettivo di un’esperienza (“la sua qualità fenomenologica immediata”, la chiama Kripke [p. 380]) è la proprietà essenziale che queste analisi escludono ed è quella in virtù della quale l’esperienza è, necessariamente, quella che è. La mia opinione è molto vicina a quella di Kripke: come lui, anch’io ritengo che l’ipotesi che un certo stato cerebrale debba necessariamente avere un certo carattere soggettivo non è comprensibile se non si trovano ulteriori spiegazioni. Ma nessuna spiegazione adeguata può emergere dalle teorie che considerano contingente il rapporto mente-cervello: forse però ci sono altre alternative, ancora da scoprire. Una teoria che spiegazze in che modo il rapporto mente-cervello è necessario non risolverebbe ancora il problema di Kripke, che è quello di spiegare perché esso appaia nondimeno contingente. A me sembra che si possa superare questa difficoltà nel modo seguente. Noi possiamo immaginare una qualche cosa rappresentandocela in modo o percettivo, o simpatetico, o simbolico. Non tenterò di spiegare come funziona l’immaginazione simbolica, ma dirò in parte ciò che accade negli altri due casi. Per immaginare una cosa in modo percettivo, ci poniamo in uno stato di coscienza che assomiglia allo stato in cui ci troveremmo se la percepissimo. Per immaginare una cosa in modo simpatetico ci poniamo in uno stato di coscienza che assomiglia alla cosa stessa. (Questo metodo può essere adottato solo per immaginare eventi e stati mentali, nostri o altrui). Quanto tentiamo di immaginare uno stato mentale che si presenti senza lo stato cerebrale ad esso associato, dapprima immaginiamo simpateticamente il presentarsi dello stato mentale: cioè ci mettiamo in uno stato che gli assomigli mentalmente. Allo stesso tempo tentiamo di immaginare per via percettiva il non presentarsi dello stato fisico associato mettendoci in un altro stato non legato al primo, uno stato che somigli a quello in cui ci troveremmo se percepissimo i non presentarsi dello stato fisico. Dove l’immaginazione degli aspetti fisici è percettiva e l’immaginazione degli stati mentali è simpatetica, a noi pare di poter immaginare qualunque esperienza che si presenti senza il suo stato mentale associato, e viceversa. Il rapporto fra di essi apparirà contingente ancorché necessario, a causa dell’indipendenza dei due diversi tipi di immaginazione. (Per inciso, se si attribuisce erroneamente all’immaginazione simpatetica il funzionamento che è proprio dell’immaginazione percettiva, il risultato è il solipsismo: in tal caso infatti, appare impossibile immaginare qualsiasi esperienza che non sia la propria).
  10. Si veda Davidson (1970); io tuttavia non comprendo l’argomento contro le leggi psicofisiche.
  11. Osservazioni analoghe valgono per Nagel (1965).
  12. Tale questione è anche al centro del problema delle altre menti, il cui stretto legame con il problema mente-corpo viene spesso trascurato. Se riuscissimo a capire come l’esperienza soggettiva possa avere una natura oggettiva, capiremmo anche l’esistenza di soggetti diversi da noi.
  13. Non ho definito il termine “fisico”. È chiaro che esso non si riferisce solo a ciò che può essere descritto dai concetti della fisica contemporanea, poiché ci attendiamo sviluppi ulteriori. Alcuni possono ritenere che non ci sia nulla che impedisca di riconoscere prima o poi una natura fisica indipendente ai fenomeni mentali. Ma il fisico, qualunque altra cosa si possa dire su di esso deve comunque rimanere oggettivo. Quindi, se la nostra concezione di fisico si estenderà un giorno fino a comprendere i fenomeni mentali, dovrà ascrivere loro un carattere oggettivo, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga o no mediante una loro analisi in termini di altri fenomeni già considerati come fisici. A me tuttavia sembra più probabile che i rapporti tra mentale e fisico finiranno per essere espressi da una teoria i cui termini fondamentali non potranno essere situati nettamente in nessuna delle due categorie.
  14. “Lui fa tutto ciò che tu non faresti mai; / e poi mi ama… / Il suo amore è vero. / Perché lui non può essere te?”.
  15. “Brilla, brilla pipistrello, / chissà mai che fai di bello, / sopra il mondo voli voli, / come un piatto in mezzo ai cieli”.
  16. Il titolo inglese del libro (The Mind’s I) significa infatti “L’io della mente”, ma suona anche come se fosse “L’occhio della mente” (The Mind’s Eye); potrebbe però anche essere la forma contratta di “The Mind Is I”, cioè “La mente è io” oppure “La mente è me”, che sono appunto le risposte a quelle due domande [N.d.T.].

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