Il lavoro

Ci chiediamo mai in cosa traduciamo “lavoro”? Fin da quando siamo piccoli, veniamo inconsapevolmente indottrinati con delle idee sullo scopo dell'imparare, sul lavoro e sul guadagno. Le diamo per scontate. Diventa difficile, poi riuscire a distaccarsi da esse per osservarle con occhio disincantato.

Studiamo per specializzarci in un compito, ma rimanendo semi-incapaci di fare moltissime altre cose. Diamo per scontato che poi dovremmo fare uno specifico e specialistico lavoro che ci servirà per avere il denaro da spendere per acquistare il prodotto dei lavori di altre persone specializzate in altri compiti. Abbiamo bisogno di fare questo perché la specializzazione tende a renderci dei semi-incapaci in tutto il resto. Non siamo in grado di svolgere altri compiti, perché non siamo mai incoraggiati a farlo e difficilmente ci viene lasciato il tempo di impararli. Una società come la nostra, che si basa sullo sviluppo continuo, rende obbligatoria la specializzazione e la suddivisione dei compiti, purtroppo fino al punto in cui moltissimi lavori basilari devono venire delegati ad altri.

Il cosiddetto libero mercato è una dittatura, perché esso ci governa senza che noi si abbia la possibilità di poterlo scegliere o quantomeno di poter deciderne le modalità ed il funzionamento. Chi critica giustamente il pedo-battesimo, dovrebbe analogamente rabbrividire pensando a come il sistema del mercato e del capitale ci vengono imposti. James G. Ballard, in un suo romanzo (non ricordo se Regno a venire o Millenium people), affermava qualcosa come "l'atto più politico che possiamo fare, è scegliere se acquistare o no una lavatrice. Ogni volta che compriamo, votiamo". Questo è un dominio ancora più insidioso di quello dei governi e delle religioni istituzionalizzate. Il capitale ed il mercato governano il lavoro, come lo stato fa con la libertà individuale e la religione istituzionalizzata con lo spirito. Negli ultimi due casi, le persone hanno la possibilità di accorgersi che ci potrebbero essere delle alternative. Nel caso del mercato e dell'attuale gestione del denaro, si da ancora troppo per scontato che sia l'unico e migliore modo possibile. Complice di questo, è anche il mito dell'autoregolazione. Nella realtà dei fatti, c'è un bias causato dagli individui che hanno maggior potere. In questo, secondo me, i sindacati sono ancora miopi: non riescono a vedere il quadro d'insieme che permetterebbe loro di capire come il disagio dei lavoratori dipenda solo sintomaticamente dai singoli “padroncini” e che l'origine di esso sia congenita al sistema del mercato e del capitale. Il risultato finale, è che proteggono il lavoratore dalle vessazioni del padrone più vicino, come se questo fosse un pastore cattivo ed il lavoratore una pecorella, per poi rimetterla nello stesso recinto, oppure in quello di un padrone un po' migliore. Così, la pecorella rimane comunque all'interno del sistema che sfrutta gli animali come lei, ed essa non avrà mai la possibilità di una vita al di fuori dei recinti. Il sistema che ha fatto emergere queste situazioni locali di vessazione e sfruttamento, invece, non solo viene a malapena sfiorato, ma anche costantemente confermato. Vengono curati i sintomi, ma al tempo stesso, si mantene ben funzionante tutto il sistema che questi sintomi causa. Neppure la politica e gli stati hanno più la capacità di influire in modo determinante sul meccanismo, perché le persone che li formano sono esse stesse inconsapevolmente, pecore e pastori.

È difficile riuscire a ragionare su questo meccanismo e ad uscirne, proprio perché il modo in cui è costruito tende ad impedirci di farlo, portandosi via la maggior parte del tempo della nostra vita da svegli. È un sistema che tende ad auto-preservarsi, nello stesso modo in cui fanno le società, ma anche tutti i sistemi di potere e dominio. Mi vengono in mente Momo e Fahrenheit 451. In quest'ultimo, l'intrattenimento istituzionalizzato ed il lavoro erano funzionali proprio al non lasciare tempo alle persone di ragionare sulla propria condizione.

Nel 1932, Bertrand Russel in In praise of Idleness scrisse:

Vorrei dire, in tutta serietà, che il credere nella virtù del LAVORO causa grande danno nel mondo moderno, e che la strada verso la felicità e la prosperità consiste in una diminuzione del lavoro programmata. […

Dall'alba della civiltà fino alla rivoluzione industriale, un uomo poteva, di norma, produrre con lavori di fatica poco più di quanto era richiesto per sostenere se stesso e la sua famiglia, nonostante la moglie lavorasse duramente almento quanto lui, e i suoi figli aggiungessero il loro contributo non appena diventavano abbastanza grandi per farlo. Quel piccolo surplus oltre il necessario non rimaneva a chi aveva lavorato per produrlo, ma veniva espropriato da preti e guerrieri. […

Un sistema che è durato così tanto ed è terminato tanto recentemente (questo saggio è del 1932, NdParkaDude) ha ovviamente lasciato tracce profonde nelle opinioni e nel pensiero degli uomini. Molto di quel che prendiamo come un dato di fatto circa il desiderio di lavorare è dovuto a questo sistema che, essendo pre-industriale, è inadatto al mondo moderno. La tecnologia ha reso possibile che il godersi la vita, entro certi limiti, non sia solo prerogativa di una piccola classe di privilegiati, ma un diritto equamente distribuito nella comunità. La morale del lavoro è una morale da schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavitù. […

Il concetto di dovere, storicamente parlando, è stato usato da chi deteneva il potere per indurre gli altri a vivere per l'interesse dei propri padroni piuttosto che per il proprio. […

Il tempo libero è necessario alla civiltà, e in tempi passati lo si garantiva a pochissimi grazie al lavoro dei tanti. Ma gli sforzi dei tanti erano preziosi, non perché il lavoro è bene, ma perché il tempo libero è bene. E con la tecnologia moderna sarebbe possibile distribuire il tempo libero in maniera equa e senza danno per la civiltà.

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